indubitabile che nellultimo paio di anni la commedia italiana (o allitaliana, come si suole dire) abbia ritrovato pubblico e consensi, coronati da formidabili incassi, e in questa renaissance non sono pochi coloro che hanno cercato di affiliarsi come eredi di Risi, Monicelli, Comencini. Lo stesso percorso ha fatto Lucio Pellegrini, ma in modo più coerente, dando vita – dopo i ladri di Figli delle stelle – a un film (La vita facile) che ricalca le atmosfere di Riusciranno i nostri eroi… di Scola nel mettere in scena le ipocrisie e i lati oscuri del vivere italico.

Mario è un chirurgo privato, sposato con Ginevra, che decide di andare in Africa a trovare lamico Luca, medico per le associazioni umanitarie: il loro rapporto si è rotto anni prima a causa di un trauma e nemmeno il presento è limpido come sembra. Come il film precedente, Pellegrini dirige una commedia che si vela pian piano di thriller e film nero (scritta da Stefano Bises, Andrea Salerno e Laura Paolucci), che cerca nei personaggi, nelle situazioni, nelle locations africane – non tutte girate realmente in loco – alcuni capisaldi del cinema italiano anni 60 e 70, dal citato film di Scola a Finché cè guerra cè speranza diretto da Sordi.

Strutturato su un classico triangolo sentimentale che impone anche un dualismo tra i caratteri maschili (uno truffaldino e romanamente trafficone, laltro idealista con foga espiatoria), il film racconta lipocrisia della vita borghese, le maschere di benessere con le quali camuffiamo disagi e misfatti, ma anche la fine dellinnocenza e il fallimento – almeno morale – dei valori e dei falsi sentimenti con cui ci si riempie la bocca.

Per ambizioni e linguaggio cinematografico, questo di Pellegrini resta un film medio, magari fiero di esserlo, ma anche dalle ambizioni un po’ troppo lasche, rispetto al potenziale; almeno fino all’ultima mezz’ora circa, quando lo sguardo all’umanità contemporanea si tinge di noir, ribalta i personaggi, ridefinisce l’affresco e il tono generale.

La sceneggiatura è efficace e agile nel rimodellare la classica commedia nostrana sui canoni della società contemporanea (dalle cliniche private alle corruzioni onnipresenti, dal fasullo mal d’Africa ai segreti nascosti in banca), il personaggio di Mario è l’emblema delle difficoltà italiche nel rapportarsi alla diversità e, seppur gli manca il guizzo, Pellegrini ha mestiere e ritmo, come dimostra la buona direzione degli attori: Pierfrancesco Favino, sulla scia di Alberto Sordi di cui sembra il figlio nervoso, come i tempi prescrivono, è ovviamente perfetto a equilibrare personaggio e macchietta, ma gli reggono testa sia Stefano Accorsi – sorprendentemente – sia Vittoria Puccini, che non sono grandi attori, ma sanno trovare il soffio per caratterizzare al meglio i loro personaggi.