Prendete un film come Jusan-nin no shikaku di Eiichi Kudo, a torto visto dalla critica come una semplice copia de I sette samurai di Kurosawa, e datelo in mano a quel Takashi Miike capace di girare tre o quattro film allanno e, nonostante questo, di mantenere – se non (sempre) la qualità – almeno una forte impronta autoriale capace di farlo diventare nel giro di poco tempo uno dei registi nipponici più famosi nel mondo.
Prendete quel film e avrete 13 assassini, ultimo lavoro del folle Miike, capace in un sol colpo di omaggiare il jidai-geki (genere che racconta le storie di samurai e gente semplice del periodo Tokugawa) e di rielaborarlo non solo dal punto di vista cinematografico, ma anche attualizzando il messaggio del film al Giappone moderno.
La storia narra di Shinzaemon Shimada, che viene ingaggiato per assassinare Naritsugo, potente e spietato feudatario che, in pochissimo tempo, è riuscito ad acquisire sempre più potere grazie alla sua crudeltà. La vita di Naritsugo è protetta da un numeroso esercito altrettanto crudele, guidato da Hanbei, avversario di Shinzaemon, che intanto sta pianificando le basi per lattentato al feudatario: il piano consiste nel trasformare un piccolo villaggio di montagna in una trappola senza via di scampo. Shinzaemon e i suoi dodici compagni, consci di andare contro la morte, faranno di tutto per contrastare la spietata follia di Naritsugo.
Era da tempo che non vedevamo un Takashi Miike così eccezionalmente in forma. La solida regia della pellicola è uno dei tanti esempi di come il regista giapponese sia un grande narratore, capace di creare una struttura apparentemente semplice, ma che rivela un grande lavoro nel delineare le psicologie dei protagonisti in sede di sceneggiatura. Tutto il primo tempo è infatti dedicato allintroduzione dei personaggi e alla preparazione alla battaglia: qui Miike costruisce un film elegante e brutale, che si appoggia alle architetture degli interni e su dialoghi senza sbavature. La seconda parte è invece tutta dedicata allo scontro, uno scontro intenso e umano ambientato in un villaggio fangoso e impervio, scelta che premia il regista per il grande impatto visivo ottenuto e per la descrizione sporca e scivolosa che fa della lotta per la vita.
C’è chi ha individuato in questa netta divisione tra prima e seconda parte il volere di Miike di dimezzare idealmente in due capitoli ben distinti la sua pellicola. La sensazione che si respira è quella della battaglia finale (della durata epica di 60 minuti circa) che sembra divorare minuto dopo minuto il primo tempo, come se volesse erodere frame dopo frame lo spazio lasciato alla parola. Miike orchestra l’ora finale con grande ritmo, ma eliminando l’epica dei samurai, descrivendo queste figure eroiche nella maniera più umana possibile (idea amplificata tra l’altro proprio dall’ambientazione fangosa), dipingendoli addirittura con dei tratti psicotici che demistificano l’aura mitica della loro tipica figura.
Miike continua poi il discorso tutto personale sulla violenza, allontanandosi dalla sua filmografia precedente (anche se la struttura del film ricorda quella di un suo altro capolavoro, Audition) e trasformando il fuori campo nell’area oscura e nascosta in cui avvengono le violenze, ritagliandosi solo pochi momenti di follia puramente miikiana, sempre e comunque coerente con lo spirito del racconto (vedi la donna senza arti).
Sostenuto da una grossa produzione (a capo del progetto c’è lo stesso produttore del Premio Oscar Departures), Miike conferma il suo talento registico con un film sontuoso e oscuro, raffinato e ruvido, arido e fangoso.