Una stretta di mano, un colpo di tosse nella metropolitana, una manciata di noccioline mangiate in un bar. Gesti banali compiuti migliaia di volte al giorno attraverso i quali un virus può diffondersi a velocità impressionante. Parte così la pellicola di Steven Soderbergh presentata al Festival di Venezia, con casi apparentemente slegati tra loro in città lontanissime come Atlanta e Hong Kong, di quella che sembra solo uninfluenza e invece si rivelerà uninspiegabile epidemia capace di mettere in ginocchio una nazione intera.
Il film ha una struttura corale, raccontando le vicende di persone coinvolte in diversi modi nella situazione di emergenza: chi deve gestire la situazione dallalto del suo ruolo istituzionale, chi mette la sua vita in gioco per rendersi utile, chi specula sulla faccenda, chi cerca disperatamente una cura e chi assiste impotente alla morte dei suoi cari.
Oltre alla tematica sicuramente molto attuale, seppur trasposta in uno scenario apocalittico, ad attirare lattenzione sul film è sicuramente il cast di divi schierato, praticamente tutti almeno una volta vincitori o nominati allOscar: non capita spesso di vedere riuniti nomi come Kate Winslet, Matt Damon, Jude Law, Gwyneth Paltrow, Marion Cotillard e Laurence Fishburne. Sicuramente un bel biglietto da visita. O uno specchietto per le allodole, si potrebbe insinuare maliziosamente.
In realtà, si tratta sì di una mossa furba, che attirerà lattenzione del grande pubblico su un prodotto altrimenti dal non fortissimo appeal commerciale, un prodotto però per molti versi interessante e non privo di buone trovate (ad esempio, la ricostruzione finale della propagazione del virus). Noto per lo stile discontinuo e le sperimentazioni, stavolta Soderbergh usa un registro non lontanissimo dallultimo The informant, quasi giornalistico (anche se la coralità rimanda a Traffic).
Per buona parte funziona e la pellicola riesce a mantenere un buon ritmo per tutta la sua durata incalzando lo spettatore man mano che la situazione precipita; in altri punti la narrazione appare invece eccessivamente frammentata, ma è un rischio inevitabile, con almeno sette personaggi co-protagonisti.
Peccato che non si sia prestata molta attenzione, come invece le premesse facevano sperare, al risvolto psicologico della vicenda. L’idea che la paura sia il virus che si propaga più velocemente era intrigante e, se sviluppata, poteva dare esiti notevoli. Gli effetti della psicosi collettiva vengono invece descritti abbastanza banalmente (la folla fuori controllo che assalta le farmacie), per concentrarsi sul versante politico e sui diversi interessi in gioco (un punto di vista comunque non privo di interesse).
In ogni caso, se all’uscita dalla sala cinematografica non prenderete più la metropolitana o stringerete la mano a qualcuno con la stessa tranquillità di prima, il film avrà almeno in parte raggiunto il suo scopo.