Ruggine. E la favola dellorco nero. Che irrompe sulla scena seminando nel Castello magico la sua ombra scura. Alcuni, i più deboli, moriranno. Altri, quelli più corazzati, scamperanno al pericolo. Ma a quale prezzo? Perché niente, anche se lorco verrà sconfitto, sarà più come prima.

Questa è la storia che Daniele Gaglianone racconta in Ruggine, dividendo il piano narrativo in due spazi temporali. Il presente, quello di Sandro (Stefano Accorsi), di Cinzia (Valeria Solarino) e Carmine (Valerio Mastandrea), una volta bambini e ora adulti segnati da una ferita che non si è rimarginata, solo incancrenita, nel tempo. A partire da uninfanzia spensierata nella fantasia, ma difficile nella periferia di un Nord qualunque targato anni Settanta.



Non cerano giochi, ricchi nella plastica colorata. Solo terra, campi, polvere e limmaginazione di chi è troppo piccolo per credere nella cattiveria del mondo, ma abbastanza grande per trasformare un ammasso di rottami in un castello incantato. Luogo di ritrovo, di condivisione delle prime esperienze, di crescita. Regno del gioco verso linfanzia violata. Infanzia spensierata che viene ferita, stuprata, insanguinata.



qui che linnocenza muore per lasciare il posto al futuro tormentato di Sandro, Cinzia e Carmine. Che durante quellestate si sono imbattuti nei corpi violati e inermi delle loro amichette e, nonostante questo, hanno trovato il coraggio di affrontare lorco nero. Sarebbe stato meglio non avessero assistito al quel turpe spettacolo. Che non avessero saputo. Forse, così, ora i resti di quel castello magico sarebbero solo un ammasso di lamiere. E non il forziere che ha conservato nel tempo lo sguardo vuoto – e una volta puro – di tre vite spezzate.

Per questo è Ruggine. Rossa, come il sangue. Acre nellodore come il ferro. Sottile al tatto come la polvere che macchia. Immobile nel tempo. Perché ha catturato le vite di Sandro, Cinzia e Carmine, conservandole e lasciandole corrodere da quello che fu.



Ruggine come il tempo che passa. Anche a fatica, come quello del film, troppo lungo per le dinamiche raccontate. Che, seppur profonde e nobili, perdono di forza nel racconto. Senza che a nulla valga la prova attoriale di Accorsi, di Mastandrea e della Solarino.

Scene lente, cupe, statiche, smosse solo dalla paura che accada l’inevitabile e dal tono teatrale con cui Timi, perfetto nella parte, recita la voce del cattivo. Bellissima la fotografia, di cui la prima scena esprime appieno il senso. In un film che pretende di essere poetico, ma non ci riesce.