Più che un cammino, quella del coreano Kim Ki-duk nel mondo del cinema è stata una corsa. Una corsa costante e forsennata, che lo ha portato a girare quindici film in tredici anni di carriera. Tra film imperfetti e alcuni capolavori (Lisola, La samaritana), Ki-duk ha tracciato in maniera indelebile la storia del cinema del suo Paese, diventando un autore riconosciuto a livello internazionale grazie alla sua capacità di sezionare con crudeltà e dolcezza i bisogni, i desideri e le paure dellessere umano.

Dream è il titolo dellultimo lungometraggio del regista coreano. Dream è datato 2008 e da allora Ki-duk non è più tornato dietro la macchina da presa, cosa assai strana per un regista prolifico come lui. Circolava una voce tempo fa, che lo voleva depresso e malato e causa di un incidente avvenuto sul set di Dream: unattrice rischiò di morire soffocata durante la sequenza di un suicidio e, nonostante tutto sia finito per il verso giusto (grazie anche allo stesso Kim Ki-duk che prestò i primi soccorsi alla donna), il regista non si è mai più ripreso.

questo ciò che ci racconta Kim Ki-duk, guardandoci negli occhi, in Arirang, il suo ritorno al cinema. Ce lo racconta dopo i primi minuti iniziali, prettamente descrittivi, che ci illustrano la nuova vita del regista: immerso in un verde gelido e sperduto, Ki-duk vive ora in una piccola casa senza bagno e senza riscaldamento, impegnato a cucinare, mangiare, costruire una caffettiera. Lunica compagnia un gatto e linsistente bussare alla porta dei suoi pensieri.

Perché Kim Ki-duk non gira un film dal 2008? Perché vive in quella casa? Perché sta sempre solo? Queste e altre domande si pone lo stesso Kim Ki-duk in questo documentario in cui si mette in gioco in maniera autocritica (e forse autoironica), per capire le origini del suo male.

Forse colpa di quella morte sfiorata? O dei suoi collaboratori che lo hanno tradito? Difficile avere una risposta certa in Arirang, che mette in campo con furbizia e mestiere un autoritratto non totalmente autobiografico, i cui toni sono spesso appositamente caricati per compiacere lo spettatore e tutto è ricostruito attraverso la finzione documentaristica su filo sottile del vero e della finzione.

Il circo doloroso e narcisista messo in piedi da Ki-duk racconta, facendo finta di cercare i colpevoli, la crisi artistica di un regista, il suo blocco totale nei confronti delle storie e della vita. Non è infatti un mistero che da L’arco in poi il cinema di Ki-duk sia diventato manierista e sempre meno acuto nelle sue osservazioni esistenziali; in questa ottica Arirang è un grande reset che Kim Ki-duk fa al suo cinema. È da qui che vuole ripartire, dallo sguardo impietoso (ma autocompiaciuto) su se stesso e sul suo mondo, uno sguardo che vuole distogliersi dall’autoreferenzialità per gettarsi altrove.

In questo, il finale di fiction in cui il regista uccide i suoi detrattori e poi uccide se stesso (dopo aver costruito in casa la pistola), assume un significato quasi trascendentale, dove il regista abbandona il suo corpo distrutto per andare da qualche altra parte, ovunque ma sempre lontani da sé.

Kim Ki-duk misura con Arirang la sua capacità di fare ancora film. Non possiamo dire con certezza che il nuovo film del regista coreano sarà un capolavoro, ma sarà certamente interessante leggerlo sotto l’ottica di questa seduta psico-analitica, di questa intervista auto-accusatoria che è Arirang.