Dopo cinque anni di esilio dal lungometraggio, Roman Polanski nel 2010 firma la regia di un noir teso ed elegante che, in parte, sembrava aprire a un nuovo corso della carriera del regista polacco. L’anno successivo, Polanski ritorna in sala con un lavoro molto diverso dal precedente: laddove L’uomo nell’ombra rielaborava il classico Hitchcock in maniera moderna e coraggiosa passando attraverso una trama dagli intrecci dichiaratamente letterari, Carnage è, in tutto e per tutto, un film teatrale, dove le parole (e il loro significato) assumono più importanza del modo in cui il regista sceglie di raccontarci la storia. Non per questo però Polanski fa un lavoro da mestierante, tant’è che riesce a infondere al film un tocco, una visione delle cose che solo un grande maestro del cinema come lui poteva fare.
Non dobbiamo quindi stupirci se Polanski si metta un attimo da parte e lasci la precedenza alla piece teatrale di Yasmina Reza da cui il film è tratto (God of carnage). Polanski, con grande umiltà, racconta in maniera semplice e lineare la giornata di due coppie di genitori chiamati a risolvere le conseguenze di un violento litigio tra i rispettivi figli. Polanski sintetizza il suo cinema e lo mette nell’appartamento, unica location della pellicola e vero e proprio palco su cui si muove il quartetto di attori protagonisti. Lo sintetizza nelle tematiche (il precario equilibrio esistenziale di tutta la sua filmografia) e visivamente.
Se sui temi che sviluppa il film Polanski si fa trasportare dalle parole della Reza, dal punto di vista visivo il regista mette in atto un’operazione di grande raffinatezza registica: il riferimento claustrofobico (ancora una volta hitchcockiano) di Nodo alla gola è qui portato alle sue estreme conseguenze. Polanski asciuga ogni virtuosismo e manierismo per ricondurci verso un cinema vibrante, fatto di immagini sottili ed emozioni sottocutanee.
Quello di Carnage è un cinema impercettibile, che non ama farsi notare, ma che infonde al suo film un’impronta invisibile che lascia però il segno. Difficile spiegare i momenti in cui questo particolare aspetto della pellicola si fa più evidente, ma forse il leggero basculare della macchina da presa mentre segue una Kate Winslet ubriaca intenta a sedersi sul divano, può darvi l’idea dell’intensa e umile magia registica di Carnage. Per il resto del film Polanski tiene con fermezza il tempo del racconto, solo come pochi maestri sanno fare, concentrandosi maggiormente sulla direzione degli attori.
Ed è proprio il cast che fa il resto della magia, un cast che difficilmente rivedremo in questa forma (e tutti insieme). È quindi un’occasione che non va sprecata, la visione di un film con una qualità recitativa così alta: se a Jodie Foster e a Kate Winslet facciamo un altro (ma non meno sentito) applauso, ci alziamo letteralmente in piedi per la grandezza di Christoph Waltz, che, primeggiando su tutti, sfodera una dose enorme di carisma, capace di farci andare giù un personaggio davvero antipatico (ringraziamo ancora Tarantino per averlo scoperto in Bastardi senza gloria).
Ma Carnage è anche l’occasione per parlare di un grande attore mai arrivato al successo, quel John C. Reilly troppo spesso rilegato a ruoli secondari. Qui ha finalmente la possibilità di dimostrare le sue doti attoriali, sorprendendo a più riprese per la grande capacità di saltare da un registro drammatico alla commedia, in maniera naturale e disinvolta.
Peccato che nel finale Polanski faccia uno scivolone e, nonostante chiuda il suo film in maniera originale, si ricorda di mettere un punto alla pista tematica dimenticandosi completamente dei suoi personaggi. Rispetto al resto del film, il finale risulta un po’ freddo, addirittura clinico nel suo voler sviscerare in maniera così diretta il senso ultimo del film.