E quasi regolare che il Paese stia andando a rotoli. Certo, cè la speculazione internazionale che attacca i debiti sovrani degli Stati e al momento nel mirino cè anche lItalia. Certo, tra governo e opposizione, solamente sulla manovra, si è assistito a un delirio. Ma limpressione è che il delirio arrivi ogni sera in casa, sullo schermo del televisore. Ieri sera, su La 7, televisione che passa nellopinione comune come intelligente, impegnata e disinvolta, insomma moderna, lex craxiano Enrico Mentana, diventato anche ex berlusconiano, il famoso Mentana mitraglia, definito in questo modo da un grande giornalista come Giampaolo Pansa, ha fatto il suo scoop serale,mettendo in prima serata un breve dibattito fra tre noti giornalisti: Antonio Padellaro e Luca Telese de Il fatto in teoria contro Alessandro Sallusti de Il Giornale.
I tre, per tradizione e cultura politica, anche se su posizioni differenti, sarebbero capaci di scatenare facilmente la quarta guerra mondiale. Il breve dibattito verteva sullimportanza della satira, tra quella buona e cattiva. E fra i tre, che ridevano morsicandosi il labbro e digrignando i denti, cera una presentatrice più che bionda slavagiata come dicono a Milano. Il risultato del dibattito introduttivo è che non si è capito quasi nulla, se non che i tre si odiano cordialmente.
Ma Enrico il furbo, che piace tanto alla platea televisiva, si preparava a far vedere un film, definito film-evento, che ha come scrittori (praticamente i nostri Scott Fitzgerald) niente po po di meno che la coppia della casta, gli inventori della casta, al secolo Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, i segugi degli sprechi politici, i maestri del giornalismo dinchiesta allamatriciana, quelli che elencano gli sprechi del ristorante di Montecitorio, delle Comunità montane e via dicendo. Ma che si guardano bene dal fare uninchiesta ad esempio sulle dissipazioni della finanza di questi anni, magari facendo un paragone di cifre. Anche perché scrivono per un editore che è in realtà un esclusivo club di tennis, come dice Tarak Ben Ammar, un editore che è un patto di sindacato composto dalle quattordici realtà finanziarie più importanti del Paese. Il film si intitola Silvio forever ed è firmato da Roberto Faenza, regista anche bravo in alcune opere, ma diventato soprattutto noto come contestatore di prima fila al Festival di Venezia del 1968, poi autore di un libro che pensava di scardinare il potere borghese attraverso i videotapes. Il libro si intitolava Senza chiedere il permesso. Riletto oggi ha qualche cosa di esilarante e di comico, eppure doveva essere una cosa seria.
Il film “Silvio forever” invece è una autentica tortura. Pensare di pagare il biglietto per andarlo a vedere in una multisala è praticamente un’autentica prova di masochismo da psichiatria, neppure da psicanalisi. E’ una sequenza continua, da quando Berlusconi era bambino fino allo sbarco in politica, di immagini fotografiche, di spezzoni televisivi, un puzzle disordinato di dichiarazioni dello stesso Berlusconi oppure di avversari del cavaliere che sono già note a tutti. Al massimo lo si può paragonare allo schema dei blog di Enrico Ghezzi, solo che quelli durano in genere mezz’ora, qui, con la pubblicità annessa, siamo quasi a “Via col vento”.
C’è pure un’iniziale intervista di Ugo Gregoretti, l’arguto per antonomasia, che riesce a fare ridere, probabilmente, solo Gregoretti stesso e i suoi intimi. In definitiva un album fotografico, partigiano, messo insieme e assemblato da figli di una cultura tramortita e ormai inesistente, ossessionati letteralmente da Berlusconi che, così facendo, diventano, indirettamente, gli ultimi autentici “salvatori” di una figura che sta veleggiando verso il tramonto. Dopo aver cogestito, con molti altri, anche con oppositori dell’opposizione, i venti peggiori anni della vita politica del Paese, che qualcuno si ostinava a chiamare fase di transizione.
Ma il “furbo” Enrico, che in questi giorni si è pure beccato una durissima querela da un ex grande dirigente comunista come Gianni Cervetti (e siamo curiosi di vedere come finirà), aveva in tasca la carta di riserva: il dibattito post-film, quello che si faceva ai cineforum, quando tutti cercavano di filarsela senza farsi vedere. Insomma, una sorta di tortura fantozziana.
Prevedendo che il dibattito ha il suo peso “politico-culturale”, Mentana ha scelto tre “pezzi da novanta” del giornalismo della “seconda repubblica”: il pensoso Eugenio Scalfari, lo scafato Paolo Mieli e l’istrionico Giuliano Ferrara. Insomma, Enrico il “furbo”, abituato alla Rai della lottizzazione, cresciuto in quella Rai, ci tiene alla molteplicità fittizia delle voci, con i pro, i contro, che magari fanno anche finta di litigare.
A Scalfari il film “è piaciuto molto”. Ferrara è un po’ più schiscio. Mieli anche lui è quasi entusiasta. Si dice che sia piaciuto anche a Berlusconi stesso.
Mentana sorride compiaciuto come se pregustasse un successo. Ferrara e Scalfari si punzecchiano un poco su Garibaldi, non si capisce bene a quale proposito.
Poi si puntualizza che l’amore degli italiani per Berlusconi è, secondo Scalfari, dovuto al fatto che l’Italia è un paese anarcoide. Ferrara invece sostiene che è un “uomo d’ordine”, che ha creato la politica dell’alternanza nel Paese. Mieli la prende un po’ più alla larga e attribuisce il successo di Berlusconi anche agli errori della sinistra. Bontà sua.
Mentana tenta una domanda problematica sul fenomeno Berlusconi. Ferrara, Mieli e Scalfari cercano di sezionare il personaggio: è gentile, è narciso, è ballista, è un po’ imbroglione? Il dibattito si scalda un poco, tra Ferrara e Scalfari, sulle feste di Arcore, ma a quell’ora il telespettatore superstite è ormai bocconi e addormentato sulla poltrona. Sarebbe interessante vedere lo share. Si continua caoticamente a schema libero sul perché Berlusconi è stato al centro della seconda Repubblica. Nessuno dei tre è d’accordo l’uno con l’altro, tutti dicono la loro in modo disordinato.
Non si tratta di disinformazione programmata, quella è una cosa da grandi geni del male, come Joseph Goebbels, Willi Muenzenberg, Walter Duranty, l’impareggiabile e sconosciuto Victor Louis. Qui è solo un tormentone di pettegolezzi di ringhiera, naturalmente ristrutturato e di lusso, ma di cattivo gusto, come questi venti anni, come questa politica, come questo apparato mediatico.
A chi scrive, quando pensa al Berlusconi politico, gli viene da ridere. Ma quando pensa all’opposizione di tutti i tipi, gli viene da ridere e da piangere. Quando pensa a questo apparato mediatico, rimpiange di non aver fatto un altro mestiere. Siamo solo alla confusione programmatica.