persino il talk show, a determinate condizioni, può ridiventare interessante. Giovedì e venerdì scorso ho seguito in sequenza Servizio Pubblico e Lultima Parola, i due appuntamenti settimanali rispettivamente di prima e seconda serata di Michele Santoro e Gianluigi Paragone (Sky e Raidue). Faccio la tara, in chi mi legge qui, sulla forte antipatia ideologico-caratteriale nei confronti del primo (per varie ragioni però non lho mai condivisa) e su una qualche buona predisposizione verso il secondo, assimilato almeno fino a poco tempo fa col giornalismo moderato, per usare un eufemismo. Ora, io credo che oggi quelli di Santoro e Paragone siano gli unici due talk in cui larghe parti del Paese in sofferenza abbiano la possibilità di avere voce, certo con una gamma espressiva che punta più sul grido che sul ragionamento quindi non sempre utilmente e magari non sempre motivatamente ma certo sempre da ascoltare. Un giro rapido dai miei tweet a caldo sulle due serate:

All’@LUltimaParola di @gparagone pezzi di Paese dimenticati. Un venerdì sera su Raidue da non sottovalutare

– @Serv_Pubblico: puntata di una densità , complessità e ricchezza di racconto e presenze variegate senza uguali. Il meglio sulla piazza talk

– Ci sono tutti a @Serv_Pubblico, anche i saputelli conservatori antistatalisti vs gli statalisti brillanti. Belle facce giovani e pensanti

‘Ste donne toste, piccole imprenditrici coraggiose e intelligenti, esperte e consapevoli del proprio compito a @Serv_Pubblico

Qui non è solo questione che lordine sia quello di non disturbare il manovratore, come sostiene la parte più irrealistica e velleitaria della politica, ma gli è che le conseguenze della crisi non sono davvero adeguatamente raccontate in tv con la faccia e la voce della gente, da chi perde il posto a chi lo sta per perdere, da chi si organizza per trovare nuove strade a chi è semplicemente disperato.

Ora, mi direte, tutti i talk e i tg specie quelli de sinistra di gente incazzata ne rilanciano da mane a sera; ma questa settimana mi ha colpito, in Servizio Pubblico e Lultima Parola, la voglia di mettere in relazione, per esempio, i piccoli imprenditori in crisi su credito, commesse e costo del lavoro con gli interlocutori veri, economisti e politici, una volta tanto con la volontà di tutti (Tremonti e Crosetto per esempio) di cercare una risposta non polemica o partigiana alla crisi.

Naturalmente la distanza in termini di “drammaturgia della conduzione” fra Santoro e Paragone è ancora tanta, ma il giovane Gianluigi sta cominciando a capire come si fa (e la bella e brava Giulia Cazzaniga in esterna gli dà una bella mano). Naturalmente glisso sul controverso “scoop” del Papa in diretta (che però mi ha procurato un’autentico malessere emotivo) di cui altri si sono molto più autorevolmente occupati.
Però vi confesso che giovedì sera Servizio pubblico non era affatto in programma: avevo deciso, fra curiosità e comodità, di ascoltare il teologo Vito Mancuso invitato a parlare di famiglia (ma ha preso subito un’altra direzione) dalla mia comunità parrocchiale. Due tweet forse aiutano a comprendere perché nel giro di un breve arco di tempo mi sia ritrovato sul divano di casa a seguire Santoro:

– Buoni propositi: stasera niente tv, vado a sentire il teologo. Dopo 10′ rimpiango #isoladeifamosi e @Serv_Pubblico. Chi dice male della tv?

– Se il teologo cita “autorevoli pensatori” rimpiangi @MediasetTgcom24 e Raitre sull’emergenza neve. Poi le sale parrocchiali fanno tristezza

Deciso: mollo il teologo, 50′ più che sufficenti. Adesso cita Mounier, che a 20 anni mi commosse. Lui invece teorizza. Molto meglio la tv

Insomma per quanto mi riguarda (e non solo per motivi professionali), ci vogliono ragioni più serie per mollare il piccolo schermo, ma naturalmente la dominante è sempre la stessa: la musica, la grande (e a volte persino piccola) musica. Stavolta a dominare la mia settimana è stato il violino, anzi due splendidi violinisti: Anna Tifu e Leonidas Kavakos. Cominciamo dalla giovane artista cagliaritana, 26enne pupilla del grande Accardo.  Ha eseguito, sotto la guida di Aldo Ceccato con la Verdi di Milano, il Concerto in La minore op. 53 di Antonin Dvorak, pagina complicata, rischiosa, ritmicamente impervia, poco frequentata dai grandi dello strumento. La fanciulla, piacente e grintosa, l’ha affrontata con carattere e grande musicalità, proponendo per bis un tempo di una Seconda Sonata novecentesca per violino solo di grande bellezza ma su cui mi sto ancora interrogando: quale l’autore? Comunque Dvorak resta il grandissimo musicista che nella seconda metà dell’Ottocento, sotto l’ala protettrice di Brahms, entusiasmò poco alla volta il pubblico di qua come la di là dell’oceano, strutturando con grande sapienza gli umori della sua bella radice folkloristica boema, come nello stesso concerto ci hanno mostrato l’ouverture Karnaval e la bella Settima sinfonia op. 70.

Invece il quarantenne greco Kavakos, aria da vecchio hippy ripulito, sta percorrendo per la milanese Società del Quartetto l’Integrale delle sonate per violino e pianoforte di L. van Beethoven, che ho sorpreso nell’esecuzione di quattro sonate dall’op.12 e dall’op.30. Lungo, allampanato, dotatissimo nella cavata del braccio destro, Kavakos è un violinista che ti conquista alla prima battuta per perfezione di suono, intonazione e appiombo ritmico. E in compagnia dell’altrettanto dotato Enrico Pace al pianoforte ti porta dentro le meraviglie beethoveniane con una autorevolezza indiscutibile. 

Pensare che in un salotto dell’Ottocento, magari con un virtuoso in visita, l’intellighenzia viennese si nutrisse di queste pagine potenti e provocanti, che appoggiate alla forza della tradizione mozartiana ridisegnavano equilibri e colori della formula dei due strumenti dialoganti, ci fa riandare a un mondo ancora nobile e bello. Un tweet esemplifica il tutto:

1812: ci si ritrova nelle case, si mangia, si parla, si fa musica. 2012: idem, idem, idem, si guarda la tv e si twitta sulla medesima. Moderni

Che grande pianista doveva comunque essere il grande Ludwig, per costruire “accompagnamenti” di tale densità e virtuosismo.
Ecco, si potrebbe usare la stessa parola per l’allestimento di Settimo La fabbrica e il lavoro di Serena Sinigaglia, in scena in questi giorni al Piccolo Teatro Studio di Milano. Visivamente e attorialmente un piccolo gioiello – con una compagnia tutta efficace e una sorta di forno industriale a dominare la scena – lo spettacolo è invece privo di ragioni e dunque di vere provocazioni sul grande tema prescelto: la vita operaia. All’origine dell’operazione c’è una vasta e approfondita inchiesta universitaria sulla “Pirelli di Torino”, il grande complesso di Settimo, da poco ristrutturato, dove dal dopoguerra si creano pneumatici per il mercato internazionale a 2 o 4 ruote. 2000 pagine di interviste ai protagonisti dell’avventura: dai dirigenti agli operai immigrati o extracomunitari, il tutto sotto la benedizione della Fondazione Pirelli e della sezione “racconto industriale” del Piccolo. Ma i tweet di quella sera grondavano delusione:

Teatro Studio MI: “Settimo La fabbrica e il lavoro” della Sinigaglia, la Pirelli di Torino. Incantevole ma senz’anima

– 2000 pag. di testimonianze ma lotta, orgoglio e lacrime sono pura didascalia

– Ci sará mai un genio capace di raccontare il lavoro senza retorica o nevrosi, come la catena di montaggio di Chaplin?

Insomma una ricchezza che non si fa drammaturgia, non ti commuove, non ti sconvolge, non ti tira dentro. Ti informa, questo sì, e lo fa con grande correttezza e proprietà di linguaggio, ma che questo si faccia poi davvero poesia…

Invece quando la notizia della morte di una poetessa come il premio Nobel Wislawa Szymborska si promoziona in tv, come ha fatto in Saviano da Fazio, ti resta in mente e non sai perché. E’ effetto della promozione certo, quello che ti spinge a prendene in mano l’intera raccolta poetica, La gioia di scrivere, che Adelphi e Feltrinelli – operazione batti il ferro finché è caldo – ti mettono sotto il naso appena entri in libreria. Ma poi sfogli, sfogli e scopri, sfogli e ti prende, e in un attimo sei col volumone azzurro alla cassa. E poi a casa ti inoltri, lo scorri su e giù e trovi perle su perle che ti riguardano, che ti colpiscono. Come quella poesia in cui la poetessa sogna i suoi genitori ancora vivi, seduti davanti a lei, a un tavolo e due sedie.

Insomma mica serve sempre una serie tv Usa meravigliosa come Homeland, appena partita su Fox, per prenderti al laccio. Vado di tweet:

– Primo impatto molto buono con “Homeland” su Fox. Ne parlano come del nuovo 24: spero di evitare un contagio totalizzante come quello. Teso

– Claire Danes agente paranoica ma che è l’unica a non fidarsi del reduce già mi sta conquistando. #homeland sceneggiatura intricata e sottile

– Cresce #homeland passo passo, i misteri si dipanano, le situazioni si chiariscono (e si complicano). Un 24 per adulti: capiti i Golden Globe

– #homeland è molto più raffinato di 24: il tema terrorismo è controverso, i buoni fragili, i cattivi misteriosi, la musica jazz dominante

Ci torneremo presto, in questa rubrica. Per ora è chiaro che i lunedì sera tv sono già blindati.