E alla fine ha vinto il fattore umano…
Già, perchè la vittoria dell’Orso d’oro da parte di due sorprendenti ottantenni, i fratelli Taviani, con Cesare deve morire, messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare allinterno del carcere di Rebibbia con i carcerati della sezione di massima sicurezza (gente che ha sulle spalle pene che vanno fino allergastolo per delitti di mafia, camorra e similari), è un’operazione che unisce genio e umiltà nel mettersi a servizio di un fatto umano.
Anche la preferenza per un intenso bianco e nero,  è stata per gli autori la scelta di una irrealtà nel linguaggio, cioè una mediazione rispetto al puro naturalismo documentaristico del colore, ma che allo stesso tempo esalta l’incontro con una realtà commovente.

Il laboratorio teatrale  nel carcere di Rebibbia, messo in piedi dallattore Fabio Cavalli è infatti il luogo dove i due registi hanno trovato una materia umana dolorosa e autentica che è stata punto di partenza per raccontare delle verità universali, ma anche per costruire una relazione affettiva con gli interpreti.

E chiaro che molto ha contato anche la scelta dellopera da mettere in scena. Il Giulio Cesare ha il merito di contenere delle naturali consonanze con le esperienze del carcere: i concetti di potere, tradimento, congiura, omicidio sono parte dellesperienza dei carcerati (ma anche di quella di ogni essere umano, hanno sottolineato i Taviani), parte del loro dramma così come del dramma dei personaggi di Shakespeare. Il passato dei carcerati, il loro presente nella situazione drammatica delle carceri italiane di oggi, tutto diventa parte di questo lavoro. Il modo di espressione è diretto ed emotivo, soprattutto quando a recitare è un ex carcerato e oggi attore come Salvatore Striano (nel curriculum anche Gomorra e Fort Apasc), che nel film ha la parte di Bruto.
E in qualche modo è un tributo, durissimo, alla verità anche l’altro film italiano che a Berlino ha ricevuto il caloroso riconoscimento del pubblico oltre a un secondo posto ufficiale nella sezione Panorama.

Diaz. Don’t clean up this blood di Daniele Vicari è un racconto corale (in cui spiccano però le interpretazioni di Claudio Santamaria – un vicequestore aggiunto che cerca di interrompere le violenze – e Elio Germano – un giornalista che cerca di far luce sugli eventi) che forse eccede nell’esibire violenza su violenza, rischiando di creare almeno in una parte del pubblico una forma di rifiuto. L’intento degli autori, dichiarato e in questo senso chiarissimo, è quello di raccontare la “notte che cambiò tutto, che rappresentò il cortocircuito della democrazia nel nostro Paese” portando a un ripiegamento delle istituzioni e a un ribaltamento della verità. Un intento di denuncia che il pubblico di Berlino ha voluto premiare.

Altro premio interessante quello alla regia assegnato aChristian Petzold per Barbara, una vicenda ambientata nella Germania divisa dal muro in cui una giovane dottoressa viene spedita in un ospedale di campagna per “espiare” la colpa di aver chiesto un permesso per raggiungere il fidanzato che sta all’Ovest. Il ritratto dell’opprimente ed occhiuto regime della DDR non è nuovo, ma interessante e intesa è la figura di una donna costretta a fare i conti con le sfumature e i dilemmi nei comportamenti dei singoli, personaggi in cerca di un’integrità anche nelle condizioni più difficili.

E fortunatamente grazie a Teodora, che ne ha acquistato i diritti per la distribuzione italiana, vedremo anche la pellicola che ha visto un Orso d’argento speciale, L’enfant d’en haut  di Ursula Meier. È la storia del dodicenne Simon e dei mille espedienti e furtarelli che si inventa, sullo sfondo di un’esclusiva località sciistica, per sopravvivere insieme alla sorella…C’è un segreto nel rapporto tra i due, ma c’è soprattutto la disperata ricerca di un rapporto profondo che dia un senso alle miserie di ogni giorno.