…i tedeschi del passato sapevano scrivere canzoni e quelli di oggi no. E non saprebbe dire perché. Già il fatto che dopo quarantanni di meraviglie liederistiche di Dietrich Fischer-Dieskau a prenderne il testimone sia oggi un tenore britannico come Ian Bostridge, quarantenne oxfordiano personalmente scoperto su disco via Britten, la dice lunga anche sul terreno dellinterpretazione. Ma il fatto è che Bostridge, voce di una qualità splendente, fattasi nel tempo anche più larga e profonda, è oggi il migliore interprete in circolazione per gli splendidi cicli di leaderistici di Schubert, e come si è ascoltato lunedì scorso alla Scala, anche per quelli Schumann e Brahms.

Ed eccoci allaffermazione di partenza, banale come losservazione di un bicchiere pieno (o vuoto) a metà. Cosè che produsse lungo lOttocento tedesco una così copiosa, ricca e continuamente rinnovata produzione di canzoni per voce e pianoforte – perché questo sono i leader – e oggi neanche una canzonetta teutonica neanche per sbaglio? come per la scomparsa di una pianta, di un animale, di unisola nelloceano: tante ipotesi, ma nessuna vera risposta. Fatto sta che quando una voce perfetta e a totale, assoluto servizio del testo, nonché assolutamente padrona delle bellissime melodie che hanno percorso lintera vita creativa di quei grandi maestri, regala una serata in stato di grazia come quella scaligera, il cuore ne è davvero travolto. E va aggiunta la potente musicalità di Julius Drake, pianista ugualmente britannico, piccolo e raccolto quanto Bostridge è alto e spampanato col suo corpo giraffesco intrecciato al pianoforte. E, si diceva con unamica alluscita della Scala, vedendo in teatro solo pubblico straniero o di una certa età, che quella porta andrebbe aperta da chiunque, così da approfittare di tanta bellezza.

Ma gli inglesi di oggi, cè poco da fare, sono quelli che coi cugini americani hanno da almeno un secolo in mano la moderna canzone. Basta valicare gli steccati di genere e tanto per averne subitanea conferma ascoltare il nuovissimo Kisses on the bottom di Paul McCartney, che stavolta neanche si ingegna a scrivere più di un paio di nuove canzoni, ma semplicemente si dà al ripasso di quello che gli piaceva da ragazzo prima del R & R. Con un raffinatissimo background strumentale in gran parte dovuto alla pianista Diana Krall e al suo gruppo, laggiunta della London Symphony e un paio di amici del calibro di Eric Clapton e Stevie Wonder. 16 song di assoluta classe, perfette per chi, come me, adora il timbro in versione soft del vecchio Paul, suonate con uno swing leggero e vellutato, eleganti, lussuose.

Niente a che fare con la serata tosta e persino un po volgarotta di unaltra settantenne di vaglia del pop, Martha Reeves, che spopolò nei primi 60 targati Motown con le sue Vandellas, e che è passata per due sere al Blue Note di Milano. La volgarità non era certo nella musica, un buon R & B proposto che più classico non si può, ma nella mise tutta lamé, attilatissima e sberluscicante, che una signora di quelletà e di quella stazza non si può più permettere. Ma agli afroamericani, padroni e inventori di quel genere musicale, non riusciamo a insegnare qualcosa nemmeno noi milanesi tutti stilisti e commercio. Loro la legge dello show business la vivono così: allegra, fisica, caciarona.

Insomma, una bella serata col tiro giusto, coi classici dimenticati di quegli anni, ma con quel tiro speciale e quegli arrangiamenti giusti, non importa se la band, tutta di colore, fosse un ensemble raccogliticcio fra Inghilterra e Francia, con l’aggiunta di fiati locali fra cui spiccava la classe del sax di Gabriele Comeglio. La signora Reeves, diciamo la verità, non ha più lo splendore vocale di un tempo, ma quel che ha ancora se lo gioca bene, e quando chiude sulla mitica Dancing in the street, dimenticata come quasi tutti ne hanno dimenticato la californiana versione dei Mama’s & Papa’s, è davvero una festa. E poi, come tutti i neri della sua generazione, tira dentro noi borghesucci da locale “in” fino a farci mollare coltello e forchetta per ballare con lei.

A ballare invece, e a saltare, urlare, parlare e infine recitare – con una potenza di mezzi teatrali davvero “da paura” – è l’ottimo Fabrizio Gifuni finalmente visto al Parenti di Milano alla replica n.100 de L’ingenier Gadda va alla guerra, geniale pastiche di testi gaddiani tratti dai suoi diari di soldato della Grande Guerra, che amammo molto quando li completò Garzanti nel’91 col Taccuino di Caporetto. Gifuni e il regista Giuseppe Bertolucci ci hanno aggiunto una copiosa messe di materiale tratto da Eros e Priapo, aspra riflessione antifascista del Gadda anni Sessanta sulla figura di Mussolini e sulle ragioni erotico-politiche del suo largo consenso prima della rovinosa ultima guerra. Testi forti, a tratti durissimi, che Gifuni fa suoi con un virtuosismo degno di un Bene o di un Gassman del passato (che infatti cita come materiali sonori parodiati nell’ultima parte) e che giustificano la larga fama di questo spettacolo. Cui tuttavia ci sentiamo di rimproverare la troppa tensione “musicale” e attorale, forse voluta soprattutto dal regista Bertolucci ma cui Gifuni ha aderito pienamente. Una corda di violino tesa per 70-80 minuti di palcoscenico è faticosa certamente per lui, ma anche per noi spettatori, che invano cerchiamo almeno un momento di pausa o di non-isteria rappresentativa. Il grigio, oltre il bianco e nero, ha ancora le sue belle, necessarie ragioni.

Ma pare non sia possibile, nella nostra strana epoca, specialmente al cinema, dove è di prammatica la tensione e la cattiveria. Questo ci sembra dire anche la nuova versione americana di Millennium – Uomini che odiano le donne, con Daniel Craig e Rooney Mara a interpretare Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander del romanzo di Stieg Larsson. La serata l’ho twittata così:

 

– Millennium: vedi un film di cui sai già dal libro che hai letto e poi vedi il suo remake dal film che hai già visto. Eppure intriga ancora

 

Insomma, le ragioni del remake non sono chiare, a parte quelle del marketing che hanno appurato che la pur bella versione svedese della trilogia non aveva funzionato abbastanza sul mercato Usa. Però così è strano, con una Lisbeth copiata non dal romanzo, ma da quella del film precedente. Strepitosi invece i titoli di testa, quasi una versione ipertecnologica di quelli dei film di James Bond.

Alla fine, per riposare, ho finalmente acquistato il secondo Meridiano dei romanzi di Aldo Palazzeschi, in questa mia ricerca di una letteratura italiana ancora consapevole dei suoi mezzi. Qui, del dimenticato maestro futurista del magnifico Codice di Perelà passato alla storia per Le sorelle Materassi, ci sono I fratelli Cuccoli, gli ultimi lavori Il Doge, Stefanino, Storia di un’amicizia, ma soprattutto l’introvabile Roma del ’53, in cui finalmente riuscirò a immergermi.

È un po’ la stessa cosa che ho fatto per l’oratorio Eliasdi Felix Mendelsohn Bertholdy, anche stavolta passando dalla conoscenza via radio e disco alla possente – due ore di musica – esecuzione dal vivo. La benemerita Verdi di Milano è ancora una volta venuta in mio soccorso, dandomi piena soddisfazione. Elias è l’ultimo capolavoro del grande amburghese contemporaneo di Weber, Goethe, Cherubini, Rossini, allievo di filosofia di Hegel a Berlino e stimato da Wagner e Schumann. Per cominciare ho twittato così:

 

– Elias di Mendelssohn, cattedrale per soli, coro e orchestra. Lui a 38 anni conclude, Rilling dirige a quasi 80

In effetti, lo specialista bachiano Helmut Rilling, che ha diretto i complessi della Verdi, ha 78 anni, mentre Mendelssohn chiuse la sua carriera con questa mirabile partitura che ne aveva 40 di meno. Anche qui il tema è: butta il disco e vieni al concerto per vivere questo fiume meraviglioso di corali, duetti, arie, pezzi sinfonici. Specie se c’è una ottima compagnia di canto, oltre al Coro diretto da Erina Gambarini, formata dal soprano Kismara Pessatti, il contralto Simone Easthope (biondina australiana fascinosa), il tenore Dominik Wortig e l’Elias dell’autorevole, potente, perentorio baritono Markus Eiche. La storia è quella biblica del profeta amato e poi odiato dal popolo, prima in fuga dal suo compito scomodo di ricordare a Israele i suoi peccati poi tratto in cielo da Dio sul suo carro infuocato. Di tanta bellezza ascoltata, ci restano dentro specialmente due arie: Es ist genug!, Ne ho abbastanza, Signore prendi la mia anima! col profeta sconsolato accompagnato da un violoncello di assoluta provenienza melodica ebraica (il luterano convertito Mendelssohn tale era nato); e il quartetto finale beethoveniano Wholan, alle, die ihr durstig seid, O voi tutti che avete sete, di consolante bellezza.

Che è la stessa impressione, al primo ascolto, che ci ha fatto l’atteso Old Ideas di Leonard Cohen, per restare in tema di genialità musicale ebraica. Dieci nuove canzoni in cui il poeta cantautore dalla voce sempre più scura e profonda si fa ritrovare in tutta la sua classe e la sua forza. Rinunciando, e lo ringraziamo, a infliggerci quei suoni elettronici di cui si era le ultime volte invaghito. Grazie.