Molto ricco, bianco e tetraplegico, Philippe (François Cluzet). Ai limiti della sopravvivenza, nero del Senegal ma per il momento appoggiato nella povera periferia parigina e in ottima salute, Driss (Omar Sy). Due mondi diversi che si incontrano per necessità. Quella di Philippe di trovare un assistente che si prenda cura di lui. E quella di Driss di procurarsi un lavoro. O meglio. Un colloquio fallito che gli apra le porte del sussidio di disoccupazione. Eppure scatta la scintilla.
Non subito per entrambi. Per Philippe sicuramente. Lui che ha trascorso gli ultimi anni mettendo il proprio corpo inerme nelle mani di chi decide per mestiere di dedicarsi agli altri, ma poi ha la coscienza troppo immacolata per fare lo sporco lavoro che la cura di un tetraplegico comporta. E così Philippe sceglie Driss. Perché fisicamente è quello giusto. Perché ha una bella faccia sorridente. E perché è sfacciato e non gliene importa nulla. Né del lavoro né di lui. Lungi, dunque, dalla tentazione del compatimento.
Quasi amici tocca il cuore. Lo fa con una scrittura fluida e divertente, che pennella personaggi e situazioni senza mai cadere nel patetico. E con la bellezza di una storia che nasconde nel dolore la chiave di sopravvivenza al dramma. lironia lunico vero rimedio. La sola medicina per uno stato fisico che non può essere curato. Solo constatato e sopportato nel suo insanabile immobilismo. Nel migliore dei modi. Si può reagire con sofferenza o con leggerezza. O forse semplicemente imparare a trasformare il malessere in levità. Certo è che o possiedi per natura questo modo dessere sopra le righe o te lo devi far insegnare. Devi farti condurre. Fidarti e lasciare che gli attimi da vuoti diventino pieni di gioia di vivere. Questo è Driss. Un soffio leggero nella vita ricca ma grigia di Philippe. Driss che viene dal basso, è nero e non ha voglia di lavorare. Eppure la sua vita respira di un sorriso spontaneo, spesso esplosivo in situazioni nate dallimpatto comico e dirompente che lui ha con la realtà in cui è catapultato. La genuinità verso la schiettezza della realtà. Che può essere dura, ma malleabile, in fondo.
Philippe e Driss non sono così diversi. Distanti nello status sociale e nella (s)fortuna rispetto alla vita. Ma uguali nella sostanza. Prigionieri ed emarginati. Allinseguimento ciascuno della propria libertà di vivere e provare emozioni sincere nonostante le sbarre. Driss emarginato già solo per il fatto di essere nero, povero e obbligato a fare i conti con il carceriere peggiore, la sopravvivenza. Con responsabilità scansate ma riconosciute – morali e materiali verso una famiglia con troppe bocche da sfamare.
Philippe, obbligato a fare i conti con le barriere di una società che non mette in conto l’incapacità umana di non sapersi alzare da una sedia e camminare. Desideroso di poter amare di nuovo, ma schiavo della paura che il proprio corpo possa generare repulsione in una donna. Schiacciato in un corpo inerme, obbligato a dipendere completamente dalle cure di un’altra persona. Che non è presente per amore. Ma per soldi.
Anche per Driss inizia così. Solo per soldi. Ma l’alchimia del loro incontro trasforma il suo lavoro in una missione. In questo sono speciali Driss e Philippe. L’uno nell’essere stato genuinamente se stesso al di là delle barriere imposte dai ruoli. L’altro nell’aver accettato la dirompente forza del suo nuovo assistente e nell’aver smussato gli angoli di una borghesia ricca e benpensante.
È più una storia d’amore che una semplice amicizia. Sono due anime affini. Anzi, gemelle. Opposte e magnetiche. Si incontrano nel dramma e nella risata. Nella musica di stili e generi diversi. Nell’opera classica che incanta e nella musica contemporanea che restituisce il ritmo del ballo. Sono uno la mente e l’altro il braccio. Si completano, si istruiscono a vicenda. E il loro legame è speciale per questo. Perché nessuno dei due ha paura di perdere qualche cosa, ma lasciandosi andare si aprono alla conquista di tutto ciò che di bello si erano negati fino a quel momento. Si chiama apertura alla vita, questa. Voglia di lasciarsi stupire. Di affrontare il dolore guardando il bicchiere mezzo pieno. Perché quello mezzo vuoto ormai non ha più niente da dire. Di ridere, perché se sei tetraplegico e non puoi più muovere niente eccetto la bocca, tanto vale sfruttarla per farsi una risata. O forse è semplicemente l’essenza della libertà. Quella veramente disinibita rispetto alle catene mentali e sociali che ci inchiodano in ruoli da burattino. Perché la libertà nasce dalla mente, con cui puoi viaggiare e amare al di là di ogni confine. Oltre che dal cuore. E finché batte quello non c’è un reale e valido motivo per sentirsi schiavi.