Erano 21 anni che all’Italia non capitava di vincere l’Orso d’oro al festival di Berlino. Era il 1991 e Marco Ferreri vinceva il premio con La casa del sorriso. Oggi possiamo tornare a celebrare il cinema italiano in terra tedesca grazie a Cesare deve morire, nuovo film tra documentario e finzione dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani che spostano Shakespeare dentro a Rebibbia, mostrando una freschezza cinematografica inusuale per i loro 80 anni, e anche per la qualità relativa della loro filmografia precedente.
Infatti, il film racconta la messa in scena del Giulio Cesare del bardo di Stratford-upon-Avon nel laboratorio teatrale del carcere romano, attraverso i personaggi del carcere e del dramma, raccontando la vita dietro le sbarre attraverso quella sul palco. Che ben presto si sgretola, non è più un preciso luogo fisico, ma si espande all’intero istituto di correzione, diventando – come in più di un dramma shakespeariano – una recita nella recita.
Film di finzione fatto con pezzi di realtà, Cesare deve morire è un tipico caso di docu-fiction scritto dai fratelli registi assieme a Fabio Cavalli, che usa – in senso nobile e comunque ambiguo, quindi fertile – i detenuti del carcere romano per riflettere sul teatro, sull’arte e sulle diverse sfumature, anche teoriche, della recitazione cercando di infiltrarsi nelle pieghe tra ricostruzione e ripresa, tra realtà e rappresentazione.
Usando un complessissimo meccanismo di incastri e piani della narrazione, apparentemente facilitato dall’uso alternativo di colore e bianco e nero (bellissima la fotografia di Simone Zampagni), il film rilegge sottilmente gli schemi del prison-movie, i topoi del cinema carcerario partendo dal rapporto difficile tra detenuti e gruppi fino a quello con le guardie, attraverso le parole del dramma teatrale che riflettono sulle maglie del potere, sui suoi inganni e abbagli, sui gangli di una democrazia impossibile alla perfezione che non può che battezzarsi bagnandosi nel sangue.
I Taviani fondano la percezione del loro 19 film sulla differenza tra i vari tipi di recitazione, quella teatrale e quella cinematografica, passando per quella con cui mascheriamo la realtà, e realizzano un documentario che diventa gradualmente messinscena che è a sua volta un documentario sulla condizione della detenzione in Italia e sui suoi programmi di riabilitazione (ruolo speciale va a Fabio Cavalli, il regista teatrale autore della bellissima messinscena che apre e chiude il film); ma soprattutto il film distrugge i recinti tra vero e immaginato, e poi rappresentato, diventando un’immersione nel lavoro dell’attore, paradossale nello sfruttare il talento istintivo e teatrale dei suoi attori – bravissimi come Cosimo Rega, Salvatore Striano e Giovanni Arcuri – che sembrano veri solo nei panni dei personaggi shakespeariani e meno credibili quando devono rivestirsi di loro stessi, come in quel finale in cui la cella torna a essere prigione.
Con una forza creativa, forse demiurgica, che pensavamo persa – e di sicuro non conforme al cinema attuale – i fratelli Taviani reinventano le categorie percettive all’interno della macchina cinematografica e teatrale, non confondono mai (o quasi) i piani, ma li spostano di continuo, per confrontarli, farli specchiare. Un cinema di una modernità e complessità assoluta, che anche grazie alle musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, con un sax teatrale che si apre a cinematografiche orchestrazioni, sa trovare anche la via per parlare al pubblico. Sperando che in Italia ce ne sia ancora uno per questo cinema.