La regista Ann Hui ci stupisce colpendoci allo stomaco. Con delicatezza. Attraverso una storia, un linguaggio e un ritmo sussurrato, ma penetrante. La trama di A Simple Life è semplice. Ah Tao (Deanie Ip) per quattro generazioni ha servito la stessa famiglia. Fino a quando un malore la costringe a voltare pagina e a ritirarsi in una casa di cura per anziani degenti.
Il film, nella sua linearità narrativa, trova autentico significato nel personaggio di Ah Tao. Nella sua condizione di serva. Nella sua vecchiaia e nella solitudine. Nella devozione che con generosità riversa nella vita, nel lavoro e nellamore quasi materno con cui si prende cura di Jason, il suo ultimo padrone. E rispetto a cui la donna, cresciuta senza genitori, si costruisce il suo personalissimo mondo familiare.
di tutto questo che parla A simple life. Che calibra in un misto di malinconia e accettazione la certezza disarmante di una vecchiaia destinata a trascorrere sola. Come momento in cui ci si ferma, ci si arresta e si aspetta – in qualche modo – che arrivi la fine. Con grande dignità e con il sorriso sulle labbra. Che resta, però, di gusto amaro.
Il ritratto che la regista restituisce è triste e avvilente, per quanto espresso in termini poetici. Parla di unetà che scivola inerme. Malata, passiva, prossima alla morte. Una vecchiaia solitaria, che trova rimedio nella compagnia di chi naviga sulla stessa barca. Nelle cure di infermieri che, al di là della vocazione, sono lì per mestiere. Nella condivisione dellattesa e del malessere fisico che la precede. Questa è la casa di cura in cui Ah Tao approda.
Una serie di stanze millimetriche in cui i vecchi – e non solo – cercano un palliativo alla propria malattia. E solitudine. Perché se si è lì, tra quei letti, è anche perchè fuori non cè nessuno in grado di accudirti. Tutto questo guardato e raccontato senza clamore, ma con silenziosa e dolorosa presa di coscienza attraverso lo sguardo di Ah Tao. Che osserva. Tutto. La precarietà della felice condizione umana riflessa in quella casa di cura e nellumanità che la popola. Tra lamenti, corpi appoggiati su sedie a rotelle. Bocche che faticano a mangiare.
Ecco perché A simple life è un pugno allo stomaco. Come si può sopportare di vivere in questo modo? Da soli e abbandonati, per lo più. Anche quando la visita di un parente o di un amico allevia per qualche istante il dolore del vuoto. Della sensazione di abbandono. Non per forza voluto, ma spesso determinato da circostanze esterne. Impedimento nel prendersi cura di qualcun altro.
Questa sensazione di malessere viene rotta dal sorriso appena abbozzato di Ah Tao. Che con la sua fiera e appagata dolcezza dà senso a tutto. Alla sua incondizionata devozione verso il prossimo. Alla sua capacità di prendersi cura gratuitamente di qualcun altro. Senza desiderare niente in cambio. Strano confine tra la devozione, l’amore e la generosità. Generosità materna, quella che regala gratuitamente e non chiede nulla.
Dà significato all’amore del tutto astratto e rarefatto – come quello che può esserci tra due persone anziane – che unisce in qualche modo Ah Tao e uno dei suoi compagni di malattia, con cui si stabilisce uno strano senso di reciprocità. Lui le regala sorrisi. Lei, in un modo che la rende speciale e unica, gli presta i soldi per andare a prostitute.
Solo Ah Tao può dare senso a quel luogo di attesa verso la morte. Un dove che, senza il suo cuore disarmante, sarebbe solo piazza di dolore e solitudine.