Bellissimo e commovente. Inevitabile. Perché doveva essere realizzato. E perché deve essere visto molto più di tanti film spettacolari che, se te li perdi, sei out. O perché sono blockbuster dai super effetti speciali o perché hanno vinto premi per una cifra autoriale/poetica che in pochi capiscono. The Lady, cha racconta la vera storia di Aung San Suu Kyi dal suo ritorno in Birmania avvenuto nel 1988 per assistere la madre morente, parla alla gente. Al popolo. Che bella parola, in tempi in cui si sentono nominare governanti da strapazzo e ruberie che si credevano figlie della furbizia e invece lo sono solo dellidiozia.

La prima scena racchiude il senso di tutto il film. Il saluto che il Generale Aung San – che aveva reso indipendente la Birmania dal Regno Unito con il sogno di instaurare la democrazia – rivolge alla figlia Suu Kyi, ancora bambina, addormentata su di una poltrona è un presagio. E il cancello di casa che il Generale varca è una soglia. Di slancio verso un futuro migliore, lontano e ostico, ma anche – paradossalmente – un punto di non ritorno.

Per il Generale stesso, che non vedrà coronato il suo desiderio. Per Aung San Suu Kyi, che sin da piccola impara che per amore bisogna saper compiere sacrifici e affrontare il valore della separazione. E per la patria, che resterà soffocata in un regime di oppressione militare da cui solo recentemente sembra si stia sollevando.

Besson è molto bravo a parlare della storia birmana senza che la trama diventi incomprensibile o appesantita da fatti snocciolati in una sequenza asettica e cronologica. Lo fa semplicemente entrando nel personaggio di Aung San Suu Kyi e raccontandoci la sua vita. Di come sia stata stravolta dalla Storia e di come lei stessa, nel suo essere così apparentemente fragile e delicata, sia stata in grado di farla, la Storia. Attraverso scelte per il suo popolo e di fronte alla sua famiglia. Che viveva con lei a Oxford, dove Suu Kyi risiedette a lungo, studiando filosofia e sposando il professor Aris, esperto di cultura tibetana, da cui ebbe due figli. Scelte coraggiose e consapevoli, senza mai conoscere o poter prevedere quali sarebbero potute essere le conseguenze su di sé e sui propri cari, ma affrontando il presente con determinazione e pacatezza.

Famiglia e Patria. I suoi due grandi amori. Se da una parte ha naturalmente raccolto il carisma delleredità paterna, che la spinse a lottare per la libertà dei suoi connazionali, dallaltra ha avuto la fortuna di poter contare su di una famiglia speciale. Un marito e due figli che lhanno sempre appoggiata, condividendo ogni sua scelta senza mai metterla in discussione.

Personaggio, il suo, che probabilmente ci avrebbe messo in crisi anche se fosse stato di finzione. Ancor più potente, se si realizza che questa donna è in carne e ossa e che in tutto il suo essere minuta e gentile con sacrificio e perseveranza è riuscita a sfondare il muro dell’oppressione. O se non proprio a sfondare, quanto meno a far breccia. Consentendo al popolo birmano, pur nelle sevizie imposte dai militari, di vedersi aprire un varco verso la speranza.

Sin dal 1988, quando Suu Kyi tornò in Birmania. Con la fondazione della Lega Nazionale per la Democrazia, con i quasi vent’anni di arresti domiciliari cui il regime la costrinse. Con il Nobel per la Pace, riconosciutole nel 1991. Fino alle elezioni suppletive svoltesi questo 1° aprile e che le hanno consentito di guadagnare un posto in parlamento. Ovvero una finestra di maggiore visibilità per l’opposizione di fronte all’Usdp, espressione di un potere militare che si è convertito in civile.

A che prezzo, tutto ciò? Con anni di arresti domiciliari, senza poter vedere o sentire se non per una manciata di volte marito e figli. Di cui si è persa tutto. La malattia e la morte del marito Michael e l’adolescenza dei due ormai non più bambini. L’ottusaggine del regime che, invitatala ad andarsene, ha applicato pressione psicologica negando il visto ai familiari in Inghilterra e dandole la certezza che, se avesse varcato il confine birmano, si sarebbe lasciata per sempre alle spalle la sua lotta.

Eppure Aung San Suu Kyi è andata avanti. Senza voltarsi. Sarebbe riuscita a farlo se non avesse potuto contare sull’appoggio e l’amore dei suoi? Il suo è un personaggio di fronte a cui si può provare un senso di inadeguatezza e che procura dolore al cuore. Quanti scappano di fronte a scelte meno complesse? Per comodità.

Il film di Besson ha il merito di rendere perfettamente il grande senso di umanità, amore e coraggio di Suu Kyi. Della necessità, che a volte le circostanze impongono, di andare avanti nonostante tutto. Consapevoli che ogni scelta comporta un sacrificio. Besson non parla di questa donna in maniera plateale o retorica, ma dando il senso del dolore che queste vite hanno attraversato. Tutto per un ideale. Non per vezzo e capricci. È questo che rende grande e di valore una scelta. Un ideale. E non è necessario si tratti di lottare per la libertà della Birmania.