La seconda lezione della premiata ditta Fazio & Saviano è stata meno cupa della prima. L’autore di “Gomorra”, nuovo guru della sinistra catodica, si è rituffato nell’alveo prediletto del sistema criminale. I codici delle cosche, le parole criptate, il linguaggio mimetico che persiste con la sua efficacia perversa nell’era dei social network. E il sacrificio delle donne dei boss, che pur di ribellarsi alle organizzazioni, scelgono di morire bevendo l’acido, veleno domestico. Altri suicidi, diversi da quelli degli imprenditori della sera prima: Maria Concetta Cacciola, Tita Buccafusca e Lea Garofalo. Se leggerete le intercettazioni e i verbali degli inquirenti, ha detto Saviano, scoprirete che contengono un gran desiderio di ricominciare, di prendere i figli e andarsene altrove per ricostruirsi un futuro lontano dal crimine. C’è un grande desiderio di felicità, ma queste donne dicono che si può cercare la felicità a condizione che coincida con la verità, “questo mi hanno insegnato”, conclude lo scrittore.
Insomma, ci provano Fazio e Saviano a essere meno maestrini, meno saccenti, e a trasmettere ciò che a loro volta hanno imparato da qualcun altro. Provano a non passare troppo per sacerdoti, missionari della verità. Anche il primo monologo sulla comunicazione mascherata dei boss si era concluso con un’esortazione sostenuta dalla convinzione personale (“Difendendo le parole sono profondamente convinto che difenderemo il nostro territorio”). Ma nella complessa liturgia del programma alla fine è l’ambizione di partenza a prevalere, la presunzione di “riparare le parole”; non a caso si è scelta la location, peraltro splendida, delle Officine Grandi Riparazioni di Torino, dove si riparavano i treni.
Per quanto ci si sforzi di non metterla giù dura, se si vuole ridare significato al linguaggio, se si vogliono rispolverare le parole usurate, restituendole alle loro origini autentiche, magari riattualizzando un passato genuino in contrapposizione con un presente corrotto, è assai difficile non scivolare nelle trappole della saccenteria. Che sono tante. Non a caso, forse, quelli che riescono a evitarle meglio sono i comici, abituati per mestiere a non prendersi troppo sul serio. Rocco Papaleo, per esempio, che parla della “pietra”, utile alla distruzione o alla costruzione e lui, alla sua non più giovane età, spera ancora di trovare scritto come usarla per costruire. O Paolo Rossi, la sera prima, che quando parla di “finanza” premette sempre “per quello che ho capito io”. Persino Francesco Guccini, dall’alto dei suoi 72 anni riesce a risultare semplice spiegando la genesi della parola “cantautore”. 

Paradossalmente, i momenti emotivamente e televisivamente più suggestivi rischiano di essere proprio quelli in cui non si parla ma si canta: le due esibizioni di Elisa (Father and son di Cat Stevens e la splendida One degli U2), e le coreografie sui brani di Simon & Garfunkel e Bob Dylan.
Per il resto serpeggia il virus del complesso di superiorità – noi siamo la parte migliore del Paese e adesso vi diciamo come si sta al mondo – con tutti i suoi derivati, difficilissimi da dissimulare. Come, per esempio, il narcisismo intellettuale di Nicola Piovani, che illustra la parola “stupore” cominciando così: “Nella sceneggiatura de La voce della luna, ultimo film di Federico Fellini” per il quale lui ha composto la colonna sonora… Oppure la pedagogia politica e civile di Ettore Scola, veneratissimo maestro della cinefilia éngagé, che parte con un ricordo d’infanzia legato alla parola “quaderno” che sembra un’affettuosa nostalgia nell’èra digitale, ma alla fine va a parare sui “Quaderni del carcere” di Gramsci.
O, infine, il moralismo camuffato di Luciana Littizzetto che sciorina tutte le declinazioni della parola “stronzo” per saldare alcuni conti personali, concludendo con un’esortazione ad accettare l’handicap e a respingere la chirurgia estetica. Ma qui siamo improvvisamente precipitati a “Che tempo che fa”…
Per carità, con la televisione che domina di questi tempi soprattutto nelle reti generaliste, possiamo pure confrontarci con il rito della premiata ditta Fazio & Saviano. Ma il sovradosaggio e la concentrazione in tre giorni, quasi un ritiro spirituale, rischiano di provocare il rigetto.