Ho vinto io, documentario, riassunto del 21 maggio 2012 – Come raccontato da Carlo Lucarelli nell’introduzione, “Ho vinto io” è un documentario di Felice Cavallaro in cui prende la parola la vedova Rosaria Schifani, vittima della perdita del marito Vito (scorta del giudice Falcone) nel 1992, mentre quest’ultimo era impegnato nella lotta alla mafia. Le immagini danno voce, oltre che alla donna, anche allo stesso autore del minifilm e a vari testimoni e colleghi dell’uomo che, assieme al giudice Falcone, perse la vita nella strage di Capaci. E’ proprio la donna a cominciare a parlare all’inizio del documentario: “Quel 23 maggio Vito dove essere libero. A lui spettava andare a prendere il giudice Falcone, che nessuno sapeva dovesse arrivare all’aeroporto. Ma quei maledetti lo sapevano, perché dovevano fare l’attentatone, cosi lo chiamavano”. Le immagini mostrano il passato grazie a un filmato tratto dal funerale di quell’anno, in una chiesa di Palermo: “Chiedo soprattutto che venga fatta giustizia, anche per gli uomini della mafia, che ora sono qua dentro di sicuro. Io li perdono, ma si devono inginocchiare”, recita la donna davanti a tutta l’Italia. “Vi chiediamo davanti a tutta Palermo di pregare, perché qui non c’é pace, non c’é pace per niente”, continuò la donna tra le lacrime. Poi, tornando ai giorni nostri, racconterà di quei momenti: “Quel 23 maggio questa chiesa era gremita di gente. In quel momento l’omelia non mi bastò, avrei voluto che il cardinale Pappalardo urlasse a quella gente “perché uccidete ancora?”. Ma lui non lo fece”. Le immagini seguono Rosaria nella ex villa di Totò Riina, dove il boss alloggiava in segreto. Con rabbia, la donna percorre i corridoi, e prende a calci la mobilia ormai decrepita raccontando: “Avrebbero dovuto fare cosi le autorità, come sto facendo io. Non far finta di niente mentre qui dentro veniva progettato tutto”. Le immagini scorrono e ritroviamo la donna sulla A29, al monumento dedicato al marito, oltre che a Falcone, mentre racconta: “Qui, con 600 chili di tritolo, è finita la sua vita”. Poi, lei sembra parlare a lui indicando il punto nel quale Vito è finito dopo l’esplosione: “Che volo che ti hanno fatto fare, come in una guerra. E questi sono uomini d’onore?”. Cavallaro racconta di Falcone e della scorta: “Erano uomini soli, sapevano a cosa andavano incontro. Dopo la strage di Capaci Borsellino decise di non volere scorta, ma gli uomini vollero seguirlo fedelmente, quasi urtandolo”. La vedova si reca alla caserma di Lungaro, nell’ufficio scorte, alla ricerca della stanza in cui suo marito faceva base tutti i giorni: tutti la circondano con un silenzio del tutto simile a timore reverenziale. La donna racconta al gruppo di gente che la circonda il suo vuoto: “Non ci sono ancora risposte, sento un’angoscia pazzesca”. E mentre gli uomini fanno spallucce, non sapendo cosa risponderle, lei cerca di stemperare l’atmosfera: “Sono contenta di vedervi”. 



La donna poi si interroga seduta a una sedia: “Ma chi sono questi mafiosi? Che aspetto hanno? Me lo chiesi anche quel giorno davanti alla bara, quando avevo accanto il giudice Borsellino. E lui mi rispose che i mafiosi non li riconosci, perché sembrano più puliti delle gente normale. Allora gli chiesi se potessero essere anche li. Lui rispose di si, che i mafiosi di solito, quando ammazzano, si nascondono dietro il feretro della bara delle vittime”. Tornando alla casa di Totò Riina, la donna continua a raccontare, rivolgendo le parole a loro: “Era stupenda la villa, grande. Ma era lo stesso uno schifo. Vivevate qui dentro in gabbia, attorno a voi solo palazzi. E casseforti, guarda un po’ “. Nelle sue parole, come racconta Cavallaro, c’è la rabbia verso quella giustizia che non ha avuto il coraggio di stanarlo quando, nella villa, il boss godeva delle sue ricchezze derivate dalla morte degli altri. E continuando, la donna dirà: “La moglie aveva addirittura due cucine: io con Vito non ne ho vissuta neanche una. Mi chiedo se lei, quando cucinava, si chiedeva cosa facesse il marito. Questa villa, comunque, non glie l’ha data Dio, ma Satana”. La rabbia della donna esplode contro lo Stato, mentre, guardando le mura del palazzo di giustizia di Palermo, racconta: “Li hanno lasciati da soli”. Cavallaro racconta come Rocco Chinnici, capo del pool di procuratori antimafia nel 1983, avesse avvertito la sconfitta ben prima della morte di Falcone: “Aveva già capito che la mafia veniva dall’interno del palazzo di giustizia stesso”. Continuando a ripercorrere le immagini di quel tragico giorno, la donna ricorda i momenti peggiori, quelli in cui un amico, che aveva già capito che Vito potesse essere tra le vittime, chiamò la donna per domandare se lei ne sapesse di più: “Mi disse che avevano fatto un attentato a giovanni Falcone. Mi diressi alla caserma e mi assicurarono che stava bene: non mi fidai, ed ebbi ragione”. E alla fine, le parole della donna sono ricche di significati: “Io ho ricostruito dopo tanti anni la mia famiglia. Ma la differenza tra la mia famiglia e la loro, è che io l’ho rimessa in piedi col dolore, la mafia l’ha imbrattata col sangue”. Ora la donna, come racconta al reparto scorte, si è unita a un maresciallo delle guarda di finanza, alla quale anche il figlio si è legato molto. Le ultime parole sono proprio dal ragazzo, Antonino Emanuele, che dall’accademia della Guardia di Finanza legge una lettera della madre: “Vorrei spiegarti cos’é la mafia, ma vorrei capirlo bene anche io. Ho parlato con tante persone, ed ho capito una cosa: non potremo mai darci per vinti se non scopriremo la risposta”.

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