un film che merita di essere visto, quello di Stéphane Rybojad, documentarista di nascita. Perché non prende una posizione, non è retorico e non racconta la guerra e i personaggi che le gravitano attorno con manierismo. Sembra, questa è limpressione, che lo voglia fare con sguardo oggettivo attraverso cui restituire a ciascuno il proprio ruolo e senso. Concentrandosi forse un po troppo sullazione militare in sé, che rischia di adombrare tematiche sensibili e forti, ben presenti e radicate, invece, nella trama della storia. Special Forces parla di due, anzi più, realtà che si scontrano-incontrano. Quella dei militari, quella dei giornalisti e quella di un popolo oppresso dalla visione ottusa ed estremista del regime talebano.

Nel film di Rybojad posizioni apparentemente e, nella mentalità comune, distanti si conciliano. Le Forze Speciali francesi, da una parte. Uomini che agiscono come macchine da guerra, mentre hanno ciascuno una propria vita, famiglie che li aspettano mentre loro sono in missione negli angoli più sperduti del mondo. Solo che alcuni torneranno. Altri no. Poi cè quella dei giornalisti, qui rappresentata da Elsa Casanova (Diane Kruger), reporter di guerra coraggiosa e determinata a conoscere la verità e ad aiutare il popolo afghano a cambiare la Storia. Per mezzo di un taccuino e una donna che, alzando il burqa davanti alla telecamera di Elsa, accende una miccia molto pericolosa, consapevole che quellatto di verità è la sua condanna a morte.

Cè un problema, però. Alla reporter francese avere tra le mani una riga nel capitolo della Nuova Storia non basta. Le è difficile accettare che qualcuno affronti il pericolo riponendo nelle sue mani non la possibilità di salvare quella stessa vita, ma il più gravoso compito di cambiare lo stato delle cose. Elsa, così, sente il dovere di sottrarre la ragazza a morte certa. Lottare contro chi è più potente, però, è una gara persa in partenza. Per sete di verità e giustizia, così, la condanna a morte della giovane afghana si estende a macchia dolio a Elsa e Amin, la sua guida locale, cui i talebani sterminarono la famiglia.

a questo punto che gli uomini delle Forze Speciali scendono in campo. Per liberare la giornalista e Amin dalle mani di Zaief (Raz Degan). Uomini, loro, addestrati a fare la guerra e per alcuni dei quali questo è solo un lavoro. Si scopre, invece, che dietro la mimetica, le armi, gli zaini e i caratteri ruvidi si nascondono soldati che sì, hanno un obiettivo, rispettare un ordine impartito dallalto e portare a termine il quale è il loro scopo principale. Ma sono anche uomini che, per quanto addestrati a sparare e a uccidere, sono profondamente legati da un umanitario spirito di squadra. Salvare chi è in pericolo, prima di tutto e prendersi cura luno dellaltro. in questo che si ritrovano il carattere deciso di Elsa e quello militarmente rigido dei suoi nuovi angeli custodi.

Il loro incontro, per quanto dovuto a una circostanza drammatica, diventa occasione di scambio. Attraverso una marcia, anzi una fuga, disumana che spinge il gruppo di militari e gli ostaggi ormai liberi a varcare fisicamente i confini tra Pakistan e Afghanistan e umanamente a unirsi nel comune terreno della comprensione e “solidarietà”. Da parte di Elsa, che si adegua allo stile di sopravvivenza militare. Da parte degli uomini delle Forze Speciali, che imparano da lei quanto sia importante sapersi adeguare, a volte disarmati e a testa bassa, alle regole di un popolo che, per quanto condannato da frange di estremisti, resta pur sempre fedele alle proprie sacre regole di ospitalità e dignità.

Tutti in questo film sono coraggiosi. A partire dalla popolazione afghana, qui rappresentata da quella giovane donna che ha la “sfrontatezza” di sollevare il burqa davanti alla telecamera di Elsa e alla canna di fucile che le dice addio. E da Amin, che segue la reporter nel suo bisogno di raccontare e mostrare la verità, con un grido delicato ma fermo nel voler cambiare la Storia. I soldati delle Forze Speciali. Che lasciano a casa famiglia e una vita normale per difendere la libertà altrui.

Al di là di tutto questo, che può sembrare retorico ma non lo è, il particolare più bello del film resta la sensibilità del regista di raccontarci tutto questo fissando la macchina da presa sullo sguardo. Sugli occhi. Della giovane donna talebana. Di Elsa, che guarda gli orrori degli estremisti senza nascondersi di fronte alle esecuzioni e alle azioni di guerra dei militari francesi. I primi piani, infine, sugli occhi dei soldati. Uomini qualunque addestrati a stare sempre all’erta. Occhi in un volto rigato dalla fatica e dallo sporco di un deserto che si mescola a neve e montagne. Polvere che appartiene a una terra straniera, ma non per questo estranea alla necessità di essere osservata, per reagire. Occhi, i loro, che scrutano e colgono pericoli. Fissano il mirino. E sparano. Gli unici occhi che non hanno il coraggio di guardare in faccia la morte – e quando lo fanno è solo perché non osservano il terrore del volto, ma colpiscono alle spalle, sono quelli codardi del talebano Zaief.

In questo film non c’è giudizio morale verso i giornalisti, che a volte, per sete di verità, si spingono oltre, e i militari, che uccidono per mestiere. La dedica finale del regista ne è una conferma. Sarebbe banale una condanna verso il regime talebano. C’è, invece, ed è forte, verso chi non ha il coraggio di guardare. Guardare è prendere coscienza. Primo passo verso l’azione, unico vero motore per cambiare la Storia. Ovvero per riconquistare la libertà.