Storie di donne che uccidono i propri figli e ora scontano la pena, scandita dal tempo che scorre immobile, in un ospedale psichiatrico giudiziario. Senso di colpa. Verso di sé e il figlio che non cè più. Responsabilità, per la maternità abortita e per il gesto commesso. Dolore.

molto duro Maternity Blues. Così come lo è confrontarsi con le quattro donne di cui ci viene raccontata la storia. Perché la società impone di guardare alla maternità come a un atto, un momento, un gesto naturalmente felice in cui un figlio è la più ovvia, ma non per questo scontata, derivazione dellamore di una donna e massima espressione di femminilità.

Qui, invece, la realtà, laltra faccia della medaglia, ci viene sbattuta addosso senza troppi giri di parole. E se si è tra quelli che credono fedelmente che essere madri sia naturalmente bello, forse almeno il dubbio che diventare mamma non sia unisola sempre felice te lo insinua. La maternità può essere sofferenza? Sì, evidentemente.

Ce lo racconta una frase su tutte, tratta dal pensiero di Clara (Andrea Osvart), il nostro punto di vista nella pellicola. Non tutte le donne sono nate per essere madri. Altrettanto spietate sono le vite delle altre tre donne macchiatesi di infanticidio. Che con Clara condividono un minimo comune denominatore. Lessere state madri sofferenti e fragili. Sole, in qualche modo. Consapevoli, quanto lucide, nel riconoscere e ricordare di aver ucciso i propri figli.

Clara, dicevamo. Che rifiuta lamore e il perdono del marito (Daniele Pecci) per vivere e attraversare in solitudine il proprio senso di colpa. Con cui intende fare duramente i conti. Senza fuggire attraverso le sedute di gruppo cui le ragazze sono tenute a partecipare. Per condividere e rendere meno opprimente il peso del loro gesto. Lei, invece, guarda oltre – non avanti – senza speranza, semplicemente nella crudele e irrimediabile certezza di quello che è successo.

Cè poi Rina (Chiara Martegiani), giovane e disorientata da una vita che lha colta impreparata. Crede ancora nellamore, lei, nonostante abbia paura delle mille possibilità che esistono al di là delle sbarre dellospedale. Cinica e crudele, invece, Eloisa (Monica Birladeanu) è la bocca della verità. Senza scrupolo, apparentemente sicura di sé, con la scorza dura e il sogno di sfondare come cantante, una volta. Sogno morto insieme a suo figlio. Verso cui sembra non provare senso di colpa. Ma la sua pena, psichica e fisica, la sconta lo stesso.

Infine Vincenza (Marina Pennafina). Madre e moglie devota. Ora, che è dietro le sbarre di un ospedale psichiatrico, religiosa più che mai. Lei, che, sola, lo è ancor di più ogni volta che affida i propri pensieri ai due figli che là fuori la aspettano.

Lucidità, senso di colpa da cui devono guarire, solitudine e tristezza verso la vita. I tratti comuni di queste madri addolorate. Ecco perché Maternity Blues. Perché il blues è più uno stato d’animo – la sofferenza – che una musica. E il regista (Fabrizio Cattani) e la sceneggiatrice (Grazia Verasani – autrice di From Medea, la pièce teatrale da cui è tratto il film) sono stati molto bravi a tradurre in immagini spietate e fotografiche il dolore che definisce questa condizione.

Anche per questo motivo è ancora più dura raffrontarsi con Clara, Rina, Eloisa e Vincenza. Si può più o meno condividere l’attitudine alla maternità. Ma resta il fatto che la sceneggiatura e la regia non lasciano spazio al giudizio. Si “limitano” a raccontare le vite spezzate di quattro donne che nel bene o nel male hanno fatto una scelta. Commettendo un omicidio.

Con una fotografia – quella registica – che è fredda e vera come ciò che sta descrivendo. Non crediamo che regista e sceneggiatrice vogliano proporre strumenti per giudicare. Solo esprimere uno stato di fatto. Quello della maternità come sacrificio, privazione, assenza, spesso, dei propri compagni. Si può uscire da questa condizione? Forse. O forse no. Perché la sera, quando si spegne la luce, si è da soli di fronte alla propria coscienza. E la solitudine, in fondo, è come il blues. Uno stato d’animo.