Il potere non deriva dalla volontà, ma dalla verità afferma solenne Abramo Lincoln. La sua affermazione non deriva però dalle sue idee politiche, quanto dalla decisione di lottare contro i vampiri. La leggenda del cacciatore di vampiri raccontata dal nuovo film di Timur Bekmembatov (Wanted) – e prodotto da Tim Burton – è quella leggenda secondo la quale il 16 presidente dAmerica fu un ammazzavampiri e la famigerata guerra civile fu non contro proprietari terrieri schiavisti, ma contro ambiziose creature sovrannaturali. 

Il perché è presto detto: a Lincoln i non-morti uccisero da piccolo la madre. Covando vendetta tremenda, il ragazzo si fa addestrare da Henry, un vampiro ribelle che si serve degli umani per bloccare la sete di sangue e di potere dei suoi simili, guidati da Adam, il più importante latifondista del sud. Ma ben presto capisce che oltre alle armi, un mezzo più potente per sconfiggere le ambizioni vampiresche è la politica e le idee, così intraprende la strada che porta alla Casa Bianca. 

Scritto da Seth Grahame-Smith, autore del romanzo di partenza (Abraham Lincoln: The Vampire Hunter) e già sceneggiatore di Dark Shadows di Burton, il film è un fantasy dazione bagnato dhorror e mescolato con la fanta-storia che guarda, per scelte narrative e visive, allo Sherlock Holmes di Ritchie, ricalcandone la matrice steampunk.

La curiosità nel mescolare la biografia di Lincoln con lorrore più trendy e soprattutto nel filtrare la storia dellAmerica attraverso i moduli del racconto gotico-splatter porta il film a giocare in modo fin troppo disinvolto con la politica e i risvolti ideologici della narrazione, finendo così per fare un ritratto reazionario e guerrafondaio delle tragedie fondanti degli Stati Uniti: lo sterminio della popolazione nativa e la schiavitù sudista non furono responsabilità umana – e americana – ma vampira. Per cui gli americani non hanno colpe ed è giusto fare la guerra ai nemici, costi quel che costi, perché sono mostri pericolosi. La disumanizzazione dellavversario, in un contesto reale, è lespediente più bieco con cui larmeno Bekmembatov cerca di conquistare il pubblico americano, dimenticandosi però del resto. 

Ossia di un baraccone filmico che ostenta la propria mediocre grevità fin dall’inizio, stracolmo di goffe esagerazioni prive d’ironia come a replicare l’ormai morto cinema hongkonghese o i rimasugli estetici di Matrix, di un’estetica digitale estenuante e spesso scadente (come nel finale) per colpa di un budget non adeguato (meno di 70 milioni per un film che ne vorrebbe ostentare il doppio), che chiede allo spettatore incredibili salti mortali per credere a ciò che vede, ma che non ha il tocco e la lucidità per meritarselo. 

Cinema raffazzonato alla ricerca di spettatori senza malizia o col pensiero alle vacanze e all’aria condizionata, che vorrebbe far passare l’opaco Benjamin Walker per un nuovo Liam Neeson e a cui basta alzare il volume e il tono delle esplosioni per credere di fare spettacolo: ossia la fine del kolossal made in Usa.