Esiste un universo di dolore con cui tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Un mondo in cui non ci sono rumori se non quello assordante del silenzio. Del vuoto che rimbomba. In cui ci si trova a danzare una coreografia casuale nel tentativo di dare colore a quello spazio bianco. Philippe Falardeau dipinge Monsieur Lazhar, un film molto delicato, come una poesia che nasconde sotto un velo di immagini un senso inaspettato, profondo, pungente. Catartico, alla fine. Per Bachir Lazhar (Fellag), che si trasferisce in Canada dall’Algeria e ora deve fare i conti con la morte della moglie, bersaglio di un attentato. Per tutti i bambini che in un giorno di scuola qualsiasi vengono sfiorati da un dramma troppo grande per la loro innocenza. Il suicidio, in classe, della loro maestra.
molto bravo il regista a raccogliere temi spinosi dentro una storia semplice nei fatti – ma non per questo priva di drammaticità -, nell’ambientazione e nei volti. Forse è merito dell’ordinarietà dello spazio che delimita le vicende. Quello della scuola. Luogo di vita quotidiana e che appartiene alla memoria di chiunque. Falardeau mette, insomma, a proprio agio lo spettatore, dichiarando che il territorio su cui si avventurerà nell’ora mezza del film non è insidioso. Spiazza la platea, invece, e ne conquista il cuore con un crescendo di situazioni ed emozioni di fronte alle quali, presentate senza preavviso, si resta senza parole.
Ferita dell’abbandono (qui nella forma irreversibile della morte), liberazione dal senso di colpa, integrazione razziale. Sono questi i temi che si dipanano allinterno della piccola scuola canadese. Che diventa luogo di incontro e condivisione. Di amicizia e amore. Perchè è qui che si conoscono l’anima ferita di Bachir Lazhar e quelle dei bambini della sua classe. Insieme non solo condividono lo spazio, il tempo e il sapere, ma soprattutto il dolore della separazione. Violenta. Si, perchè violenti sono stati gli addii di Martine, la maestra che Bachir sostituisce, e della moglie dellalgerino.
Forse è questa la parola chiave del film. Violenza. Nel suo senso positivo, se è vero che ce n’è uno. Intesa, cioè, come potenza espressiva. Che lascia senza spiegazioni allinterno di un vuoto acuto, gomitolo di sensi di colpa nati nel silenzio di quello spazio. Il senso di colpa di essersene andato. Di essere sopravvissuto. Del non esserci stato o, più semplicemente, del sentirsi la causa di quanto è successo.
E’ violenta anche in questo la storia. Non solo nell’aver corrotto i muri bianchi dell’infanzia, ma anche nell’aver fatto vivere in un bambino il senso di colpa per un gesto più grande di chiunque. In questo, nell’assoluzione che Bachir riconosce a Simon (Emilien Neron), la classe diventa anche luogo di amicizia e amore. Di scambio. Di integrazione. Bachir sostituisce i genitori in chi non li ha, è educatore nel dettare principi ferrei, “antichi”, di buon senso e rigidi nei quali si porta appresso da un luogo lontano nello spazio e nel tempo il sapore della vita che fu sua. Deve imparare. Anche. Aggiornare la sua personale lista di regole grammaticali. E così accade che Falardeau costruisce un film in cui non solo è in grado di far parlare il cuore, ma pone la questione dell’integrazione razziale al centro del testo. In modo sottile e intelligente.
Se Bachir assume le fattezze di un angelo salvatore verso Simon, nel suo caso è la piccola Alice (Sophie Nelisse) a interpretare questo ruolo. Mettendo la propria curiosità al servizio della mente colta dell’algerino e scardinando il muro – anche fisico – che la scuola impone tra maestro e alunno. Ogni lacrima trova senso in un abbraccio liberatorio. Conciliatore. Che cancella con un colpo di spugna il dolore di un domani che ci separa da chi amiamo e ogni colpa passata e presente.