un film difficile, Pietà. Leone dOro allultima mostra del cinema di Venezia, lopera di Kim Ki-duk colpisce come un pugno nello stomaco. Il regista coreano è arrivato in Laguna dopo un periodo buio, che sembra ormai definitivamente concluso. Con Pietà torna a offrirci un ritratto crudo e graffiante della realtà, unindagine profonda dei sentimenti e dei rapporti umani, attingendo al modello della tragedia greca.
Lee Jung-jin interpreta un giovane strozzino alle dipendenze di un boss locale. La sua vita si svolge in un tetro quartiere di Seul, in solitudine, perché la madre lha abbandonato ancora in fasce. Incapace di provare amore, o di riconoscerlo quando lo vede, affronta le vittime con gelida prepotenza, menomandole per riscuotere i soldi dellassicurazione.
Non cè delicatezza nel modo in cui il regista ci presenta le azioni del protagonista. Sentiamo le grida strazianti di chi perde un braccio o una gamba, vediamo la scia di sangue lasciata sul pavimento. La crisi economica non perdona e i soldi non sono accessori. Chi chiede un prestito ha una famiglia da mantenere, un figlio in arrivo, un lavoro sottopagato. Limpoverimento dellarea metropolitana rispecchia il degrado morale, lassenza di un sistema giudiziario adeguato, lipocrisia del sistema.
Un giorno, allimprovviso, alla porta del protagonista si presenta una donna (Jo Min-Su) che afferma di essere sua madre. Come Edipo, il giovane instaura con lei un rapporto ambiguo: dapprima non le crede e quasi la violenta, poi accetta lillusione e si lascia coccolare, come un bambino. Mentre lamore si fa strada nel suo cuore, viene meno la spietata freddezza che gli consentiva di eseguire il suo lavoro. Comincia a provare pietà per le vittime e cerca di cambiare vita.
La ricerca delle origini e il desiderio di appartenenza sono innati nellessere umano. Il regista tocca delle corde profonde, spingendo il pubblico a sperare che il protagonista compia un percorso di redenzione. Ma la madre, limmagine della Pietà di Michelangelo, piange un figlio che è morto. E, contrariamente allidea del perdono cristiano, cerca vendetta.
Finge di essere stata rapita e costringe il ragazzo ad affrontare le persone che ha menomato. Una discesa negli abissi della sua anima, fino a provare disgusto per se stesso e per le sue azioni. Il carnefice diventa vittima della società e di se stesso, per trovarsi infine di fronte al vero “figlio”: un giovane suicida la cui madre non ha mai perdonato il responsabile della tragedia.
Da una parte, c’è la pietà. Un sentimento umano, che la visione del film suscita nello spettatore e che i protagonisti scoprono nel corso della storia. A volte la compassione scava nel profondo, portando a cambiare vita. Altre volte, invece, non basta a vincere la sofferenza. Dall’altra, c’è la vendetta. Attraverso i colori, il regista ci aiuta a entrare nel mondo interiore della madre, che veste di rosso. Rosso come l’amore, rosso come il sangue. La donna è capace di un amore profondo che non riesce però a uscire dal nucleo originario, per espandersi e vincere sull’odio.
L’immagine della locandina non allude a un orizzonte cristiano. Il regista afferma di avere ritratto un momento della storia umana dalla sua prospettiva, e l’ha fatto nei toni della tragedia antica.