E da sempre una presenza impalpabile, quasi un fantasma, quella di Terrence Malick, ma il suo non esserci o nascondersi ha creato un mito che il suo cinema non ha fatto altro che ampliare. Così, averlo alla 69ª Mostra del Cinema di Venezia con To the Wonder, suo 2 film in 2 anni (lui, che tra il 2 e il 3 film ne ha lasciati passare 20), ha a che fare allo stesso tempo con un rito sacrale che di conseguenza lascia spazio anche alla reazione iconoclasta di coloro che a fine film hanno fischiato, come accadde anche per il capolavoro The Tree of Life che lanno scorso vinse la Palma doro a Cannes. Stavolta la storia e i temi virano allintimità: protagonista infatti è una coppia che dalla Francia si trasferisce in America per assecondare il lavoro di lui. Ma lì la donna si sente sola e distante dal compagno, decidendo di andarsene e lasciando lui in compagnia di unaltra donna, una vecchia fiamma. Quando la prima donna torna, nulla sarà come prima e la sua disperazione si appoggerà a quella di un prete.

La trama non serve raccontarla. La sceneggiatura di Malick infatti si serve di una storia damore vicina al melodramma per costruirsi come un poema audiovisivo, in un modo simile a quello del film precedente, di cui To the Wonder è una sorta di prosecuzione complementare, un risvolto, un lato B in cui la spiritualità panica si apre a luoghi concreti, a una natura che diventa anziché madre, compagna di vita, che segna gli uomini nel loro percorso. Il film usa parti del girato di The Tree of Life tagliate nel precedente montaggio e le integra con nuovi personaggi e nuovi attori spostandosi su un altro piano concettuale: se infatti quello raccontava nascita e movimento del cosmo e del creato, qui si concentra sulla natura amorosa dellessere umano, mettendo in scena la disperata lotta contro la solitudine di alcuni personaggi che cercano di aggrapparsi allamore, alla fede, al bisogno di sentirsi vivi per non ammettere di non esserlo, ai quali basta incontrarsi per un attimo per non morire. 

Il rischio enorme che corre Malick con questa pellicola è quello di applicare lo stesso metodo compositivo a un film quasi opposto, rischiando in modo ancora più forte di essere scambiato per ridondante ed ecumenico, di prendere letteralmente fischi per fiaschi. Si espone al pericolo che la fertilità entusiastica e veemente di un mistico visionario venga scambiata per ripetitività o peggio farneticazione. Ma questo suo lavoro, ancora una volta in fieri, che gioca sul flusso di coscienza e sulle associazioni di immagini e parole separate, è un nuovo colpo al cuore.

Il regista attraverso il suo stile e l’assoluta radicalità di sguardo e narrazione, sa riscrivere la percezione del tempo cinematografico, sa far vibrare sentimenti e immagini portentose (basterebbe l’inizio a Mont saint-Michel per restare a bocca aperta) sulla carta appena suggerite e sa far risuonare la ritrovata voglia di cinema – ha infatti in preparazione almeno altri due film – in un’iperattività fatta di camera in movimento e montaggio ricchissimo che sono un atto d’amore alla vita, al mondo, ma soprattutto al cinema. Non è un’opera-mondo totale, ma è una poesia struggente sull’essere umano alle prese con le sconfitte quotidiane. E scusate se è poco.