Cinque secoli, durante i quali le anime si reincarnano e gli errori si ripetono, oppure si rimediano. Molte vite simili eppure diverse, unite dalla fede nellamore e dallaspirazione alla libertà, tutte presenti in Cloud Atlas.

Nel 1849, tornando in nave dalle isole del Pacifico, un avvocato di San Francisco (Jim Sturgess) offre rifugio a uno schiavo in fuga: un gesto di solidarietà che gli salverà la vita. Nel 1936, Robert Frobisher (Ben Whishaw), un giovane e squattrinato musicista, lascia Cambridge per Edimburgo, dove lavora per un anziano maestro e compone la sua opera più bella. Nel 1973, una coraggiosa giornalista (Halle Berry) rischia la vita per evitare un disastro nucleare.

Tre esistenze misteriosamente connesse con altrettanti eventi nel presente e nel futuro, attraverso le parole e le azioni degli uomini: un editore contemporaneo (Jim Broadbent) finisce prigioniero in una casa di cura e rimpiange lamore perduto (Susan Sarandon), mentre nella Neo Seoul del 2144 una clone operaia (Doona Bae) scopre il destino dei suoi simili, conosce lamore e si sacrifica per risvegliare la coscienza umana. Infine, nel 2300 il capraio Zachry (Tom Hanks), sopravvissuto con la sua tribù a un cataclisma planetario, aiuta la Presciente Meronym a raggiungere un luogo proibito, dove sarà tentato dal diavolo.

Gli effetti speciali, evidenti soprattutto nella parte ambientata nel futuro, e il makeup, che trasforma gli attori nei diversi personaggi, aiutano a creare le connessioni tra vite più o meno memorabili, nel corso delle quali emergono i grandi temi dellumanità: la battaglia tra il fato e il libero arbitrio, il valore della solidarietà, la fede che si oppone alla massima del Dottor Goose, i deboli sono carne, i forti la mangiano. E soprattutto lamore, che non muore mai.

Cloud Atlas, tratto dal romanzo di David Mitchell, è un prodotto ambizioso, a tratti confuso, nel quale i fratelli Wachowski (già registi e sceneggiatori di Matrix) e Tom Tykwer cercano di restituire la complessità dellintreccio narrativo con il fascino delle immagini e delle parole. Guardarlo è come risolvere un rebus, mette in moto il cervello, costringe a pensare. Unisce fantascienza, storia, musica, commedia e dramma, sperimentando più stili e fondendo la riflessione sui misteri delluniverso con lesplorazione dellanimo umano. Perché la storia colpisce, intriga, confonde.

In ogni capitolo, la libertà dell’uomo e della società è messa a repentaglio ed è soltanto l’alleanza tra persone diverse a mantenere viva la fiaccola della speranza, consegnandola al futuro. Il fuoco di Cloud Atlas non è certo la teoria della reincarnazione, ma il concetto di unione: l’idea che le vite individuali appartengano a un orizzonte più vasto, nel quale le azioni dei singoli, per quanto piccole, portano conseguenze che si riflettono sul destino dell’intera umanità. E non esiste un progresso lineare, perché gli errori si possono commettere di nuovo, ma se qualcuno ha dato speranza (come Sonmi, la clone di Seoul), qualcun altro ascolterà.

Si nota il tono più spettacolare e il respiro più ampio delle sequenze affidate ai Wachowski, che saltano tra il passato e il futuro mentre Tykwer si concentra sulle emozioni, sulle sfumature della comedy e del drama. A differenza del romanzo, nel quale le storie si incastrano come bamboline russe, il film intreccia le linee narrative come i fili di un quilt, connettendole attraverso la musica e la voice over dei protagonisti.

Qualcuno è rimasto deluso, qualcun altro ha apprezzato il pastiche stilistico e narrativo la cui durata (172 minuti) rappresenta una sfida, perché bisogna tenere viva l’attenzione dello spettatore e mantenere il ritmo della storia. Cloud Atlas non annoia, ma di certo ha i suoi difetti: qualche caduta di stile, alcune battute sbagliate e un paio di scene che rovinano il tono epico del racconto, spingendo a esclamare: “ma perché?!”

In ogni caso è uno di quei film da rivedere, per cogliere i dettagli che, travolti dalle mille evoluzioni della trama, sono sfuggiti la prima volta. E da commentare, discutere, anche criticare. Almeno spinge a riflettere, e non è poco.