LOlocausto, da quando Steven Spielberg ne sdoganò la filmabilità per il grande pubblico col meraviglioso Schindlers List e ancora prima col documentario Shoah di Lanzmann, è divenuto un grande contenitore di storie vere da cui attingere per ravvivare la memoria e la riflessione storica attraverso il cinema e il romanzo. Agnieszka Holland prosegue nello scavo della parte nascosta di questa orribile storia, ossia del nazismo visto a est della Germania, con In Darkness, film candidato allOscar per il film straniero del 2012 e in uscita proprio a ridosso della giornata della memoria.
Tratto dal libro In the Sewers of Lvov (Nelle fogne di Leopoli) di Robert Marshall, il film racconta la disperata decisione di un gruppo di ebrei polacchi di nascondersi nelle fogne quando i nazisti che hanno occupato la loro città stanno trasferendo gli abitanti del ghetto nei lager. Ad aiutarli, Leopold, un operaio del sistema fognario che mette a rischio la propria famiglia, non per solidarietà, ma per interesse economico.
Holland scrive un dramma storico che costeggia cautamente il melodramma e che diventa un racconto corale sulla linea sottile che divide luomo e la bestia, sullaffermazione dellumanità proprio partendo dagli istinti più bassi e che appare sincero a partire proprio dalloscurità presagita dal titolo. Nel rievocare un pezzo oscuro della storia della Seconda guerra mondiale, che pare il contraltare sociale de Il pianista di Polanski, In Darkness racconta con acutezza il modo in cui il regime nazista cercò di annientare lumanità degli ebrei, lisolamento sociale, politico e infine antropologico con cui prepararono la soluzione finale: i sotterranei, le fogne, topi e liquami diventano così la metafora attraverso cui raccontare i tentativi di disgregare un popolo aizzandolo contro se stesso, portandolo a un condizione dangoscia che potesse esplodere anche allauto-erosione. Ma che invece, proprio attraverso il sesso, lamore, la fame e la corporalità reagisce allabiezione (anche quella del denaro) e sopravvive, almeno moralmente, alla fine.
Ma luso di cunicoli e anfratti oscuri diventa per Holland anche un preciso segno stilistico attorno al quale costruire il film con coerenza, grazie anche alla magnifica fotografia di Jolanta Dylewska, distinguendosi dal realismo classico tanto europeo quanto americano, proprio per il coraggio nellandare al fondo degli istinti, dellanimalità, della sessualità sporca e insistita, per raffigurare il lato sotterraneo dellOlocausto.
Anni di televisione di straordinario livello (la regista ha diretto per HBO molti episodi di “The Wire”, “Treme”, “The Killing” e “Cold Case”) hanno permesso a Holland di togliersi di dosso l’accademismo di film come Io e Beethoven e Washington Square e realizzare forse la pellicola migliore di quasi 40 anni di carriera, ispirata, coinvolgente, piena di suggestioni e violente intuizioni. I tempi della narrazione non sono proprio perfetti, specialmente verso la fine, e la tensione viene mitigata, ma la resa formale e il controllo registico non fanno un piega.
Come si può notare dalla direzione degli attori, con Robert Wieckiewicz, ottimo custode di un gruppo di interpreti favolosi nel procedere al buio, strepitosi a suggerire un’ampia varietà di umanità e sfumature a partire da una fiammella. Quella luce in fondo al tunnel che per anni ha tenuto vive le speranze dell’umanità senza rassegnarsi al giogo della guerra e della dittatura.