Carino, ma non troppo. Questo è Pazze di me, tratto dal romanzo di Federica Bosco e diretto dalla mano di Fausto Brizzi. Che, ci spiace dirlo, sembra si sia arenato nelle fastidiose sabbie mobili che inglobano la lotta tra uomini e donne e il loro universo affettivo/esistenziale nella forma della commedia brillante sentimentale. Una novità, però, cè. Si chiama Andrea – il Nongiovane Francesco Mandelli – ed è il protagonista del film.

Una specie di Bridget Jones de noialtri in versione uomo. Che si trova a lottare, unica voce maschile in mezzo a unarena rosa, con sette ingombranti donne. Le donne della sua vita. Dalla nonna alla badante, passando per la madre e le sue tre sorelle. E il cane, ovviamente. Vittima degli ego insistenti, fragili e decisamente sopra le righe, Andrea non riesce a costruirsi una vita propria. La fidanzata di turno che porta a casa, infatti, matematicamente scappa dalle folli femmine che invadono la sua vita. Anche quando si tratta della Lei che Andrea stava aspettando da tempo.

Ovvio che alla fine qualche cosa cambi. Meno male. Perché la storia di lui povero uomo vittima delle sue tremende donne si ripete per tre quarti di film in maniera costante e in una serie di gag certamente divertenti, ma a un tratto ridondanti. Il che rende la storia un meccanismo che sembra si sia inceppato. Fino a quando unilluminazione travolge il povero Andrea e il tono del film vira da comico a sentimental/familiare.

Quello che non convince, purtroppo, è proprio la caratteristica predominante della pellicola. Finalmente un mondo al cui potere c’è una schiera di donne. Più per una questione numerica che altro. Peccato che queste sette splendide femmine siano delle ultra-caricature dei peggiori difetti femminili. La nonna, ormai totalmente rimbecillita ma con alle spalle un illustre passato da fisica, accompagnata dalla badante straniera che di nome fa Bogdana, vestiti provocanti e una nuova intelligente concezione del mestiere. C’è poi mamma Vittoria (Loretta Goggi), di uninvadenza snervante, con le figlie Beatrice, insopportabilmente perfetta, Veronica, drammaticamente convinta che la donna debba emanciparsi dalluomo stupido, e Federica, grottescamente Lolita evanescente. Poi cè il cane, ma quello per fortuna fa meno danni.

Tutto molto divertente, ma fino a un certo punto. Perché arriva il momento in cui ci si chiede quale sia il fine del film. Paradossalmente, rispetto alla tirata della maggior parte della storia, il significato finale riserva una sorpresa. Lo accogliamo con stupore riconciliatore rispetto alle gag che ci accompagnano fino all’inizio del terzo atto. Quando tutto torna al suo posto e improvvisamente, in una strabiliante sintesi tra i sessi, Brizzi definisce i ruoli dell’uomo e della donna affinché tutti vivano felici e contenti.

Allora si tende a perdonare in qualche modo – ma senza dimenticare – la ripetitività della vicenda e lo sguardo grottesco con cui i modelli del gentil sesso e il rapporto con esso vengono stressati. La sensazione finale resta, comunque, una sola. Come recita il buon detto “il troppo storpia”, anche qui il “troppo” non porta a nulla di realmente costruttivo.

Senza voler essere disfattisti, sembra che il nostro cinema manchi di originalità, soprattutto nel trattare certe tematiche, che, proprio perché universali e ormai consumate, avrebbero bisogno di uno sguardo diverso per essere ancora apprezzate. L’Italia – non tutta, per fortuna – tende a chiudersi e crogiolarsi nel proprio ingiustificato provincialismo intellettuale. Ed è un vero peccato, perché se solo si avessero la voglia e il desiderio di guardare oltre, si scoprirebbero nuovi mondi e modi di raccontare.