Con lapprossimarsi delle elezioni, entra in gioco la comunicazione di vecchi e nuovi leader, tra l’utilizzo di nuovi mezzi come Twitter e la corsa per accaparrarsi gli spazi dei programmi televisivi e radiofonici più popolari. Chiediamo quindi a un docente di comunicazione sociale come Alberto Contri di abbozzare una prima analisi dei linguaggi e delle tecniche impiegati da vecchi e nuovi protagonisti della politica.

Professor Contri, qual è il suo primo giudizio sul divampare di una campagna elettorale che parte quando diverse liste sono ancora in via di definizione?

Premetto che le mie analisi non intendono affatto esprimere giudizi di carattere politico, anche se è di tutta evidenza che, di questi tempi, occuparsi di comunicazione significa occuparsi specificatamente di politica, dato che le imminenti elezioni spingono leader, vecchi e nuovi, a usare la comunicazione per promettere, dichiarare, annunciare, ma anche per millantare, mentire, aggredire. Il che rientra comunque nella consueta dialettica politica che, inevitabilmente, si trasforma in propaganda durante le campagne elettorali.

Le sembra di riscontrare delle novità rispetto alle precedenti occasioni elettorali? Che ruolo potranno giocare ad esempio internet e Twitter?

Oramai è sempre più difficile ed è giusto sia così separare i mezzi dai contenuti. La rapida conquista di consensi da parte di un movimento come quello di Grillo è stata certamente facilitata da una lunga esperienza di impiego della rete, ma anche da un vuoto politico che si è aperto grazie alla mala gestione della cosa pubblica ad opera di parlamentari di ogni colore. Nella gestione dei mezzi di comunicazione, assistiamo a quanto sta accadendo nel mondo della pubblicità commerciale. Si diceva che la tv non interessa più i giovani, mentre gli anziani avrebbero poca dimestichezza con internet. Per vincere le elezioni occorre catturare vecchi e giovani, sicchè i candidati sono obbligati a padroneggiare ogni tecnica e ogni mezzo, il che non è per nulla facile.

Ci dobbiamo quindi attendere un maggior uso di una sapiente comunicazione integrata?

I nuovi tempi lo impongono, ma sinceramente non vedo in giro così tanta competenza. Francamente, però, quello che mi preoccupa di più -analizzando i termini finora complessivamente impiegati- è che il dibattito è tuttora fermo al livello delle grandi categorie. Mi spiego: chi più chi meno, tutti indistintamente dichiarano di aspirare a più lavoro, più crescita, più diritti, più equità, meno spesa pubblica, e via di questo passo. Trovo come minimo imbarazzante che quasi nessuno ci abbia ancora detto in dettaglio come intende raggiungere questi obiettivi. Dalle macro-categorie, al massimo si scende al livello subito sottostante delle macro-tecnicalità di sistema, parlando di grandi riforme e di equilibri di bilancio senza fare davvero i conti con il contesto in cui tale bilancio si genera e deve mantenersi. Contesto che viene a sua volta definito con termini troppo generici come mercato, crisi, debito pubblico, globalizzazione e così via.

Sta affermando che le proposte elettorali si presentano con caratteristiche poco differenziate?

Proprio così. Per il momento l’unica differenza è data dal colore della casacca politica e dal tentativo di riverniciare di nuovo qualsiasi appartenenza. Mentre grandi cambiamenti scuotono il mondo, i nostri leader promettono che se ne occuperanno, ma senza dirci realmente “come”. Prendiamo il lavoro, ad esempio: con tutti gli studi che ci sono sui distretti industriali, artigianali, del commercio e del turismo, è mai possibile che a nessuno sia venuto in mente di proporre una chiara analisi dei mestieri che non servono più e di quelli da sviluppare? E’ mai possibile pensare di andare avanti a oltranza promettendo un maggiore uso di ammortizzatori sociali in settori che non solo non hanno alcuna speranza di sviluppo, ma che sono destinati a scomparire? E poi, che si farà? Come si fa a parlare di “crescita” senza specificare bene su quali produzioni, servizi, comparti industriali e commerciali si intende basarla?

Si dovrebbe dunque parlare più di economia e meno di politica?

 Sì, ma dell’economia che tocca direttamente le persone, non quella dei massimi sistemi. Secondo gli antichi greci, “politikè tecne” significava l’arte di vivere insieme amministrando bene la cosa pubblica. Con la crisi che c’è, buona amministrazione dovrebbe senz’altro significare “far ripartire la locomotiva del paese”, come si dice da più parti…ci mancherebbe! Ma oggi ci troviamo di fronte a leader politici che da un lato invocano continuamente l’innovazione, mentre dall’altro hanno una paura blu anche semplicemente ad accennare alle complesse e drastiche scelte necessarie per perseguirla. Per far ripartire la locomotiva dello sviluppo, occorre costruirle un binario da percorrere, che come è noto, è formato da due rotaie: una è quella delle riforme di ogni genere grandi  e piccole, l’altra è quella delle strategie di sviluppo dei vari comparti dove si può sviluppare il lavoro. Strategie che impongono di affrontare un presente assai simile ad un dopoguerra, per uscire dal quale occorrono lucidi piani di riconversione industriale e commerciale, insieme alla determinazione di avviare grandi progetti di formazione per riconvertire a nuovi mestieri anche operai, impiegati e dirigenti.

Qualcuno lo dice…

 Sì, ma non è vero! Non basta gridare “Più lavoro, più formazione”, o mettersi alla testa di un corteo di minatori gridando “Più diritti”… Abbiamo dovuto aspettare la crisi dell’Ilva per accorgerci quanto è cruciale la produzione dell’acciaio per l’Italia, per non parlare dell’alluminio. Quante altre crisi devono giungere al livello del calor bianco perché ci si decida a ragionare sui settori in cui stanno covando? Senza dimenticare che ogni crisi per sua natura induce molte spesso a compiere scelte temporanee perché dettate dalla pressione nel risolvere la situazione di emergenza.

Quindi secondo lei si prospetta una campagna elettorale poco stimolante?

Poco stimolante e soprattutto monca. Nell’analizzare i termini e le parole usate da quanti, anche animati da molta buona volontà, si propongono di governare il paese, si intravvede a grandi linee come dovrebbe essere sempre e solo una delle due rotaie. Ma dell’altra, quella delle scelte meno facili perché troppo impegnative, non c’è quasi nulla. Come giustamente hanno fatto notare in questi giorni autorevoli opinionisti, più che altro si discute su che tipo di tasse si devono imporre per ridurre il debito, ma nessuno ha il coraggio di dire quanti dipendenti pubblici assunti per mero clientelismo elettorale occorre mandare a casa o riconvertire ad altri lavori, come è stato fatto in Inghilterra. Operazione non facile, perché veniamo da decenni in cui l’assunzione nella scuola e nella pubblica amministrazione sono stati l’arma per catturare il consenso elettorale (basta guardare alla Sicilia, dove c’è una massa enorme di dipendenti regionali…). L’elenco dei settori pubblici e anche privati in cui più che allo sviluppo (privatizzazione incluse) si è puntato soprattutto a maturare una rendita o a sfruttare un plusvalore è tristemente lungo. Recentemente si è scoperto che non è il welfare una delle principali cause del debito pubblico, ma il vergognoso aggravio di tangenti e di truffe che ne hanno moltiplicato i costi senza migliorare il servizio. Ed è ovviamente lì che occorrerebbe incidere prima di andare a cercare nuovi fondi per sostenere la spesa “tal quale”, magari con troppo facili tagli lineari. Viaggiando per il mondo, si scopre poi, ancora oggi, un’altra cosa.

Cosa?

Che, nonostante tutto, il made in Italy e il “bel paese” godono ancora di una altissima reputazione, per cui ci accorgiamo che il commercio estero e il turismo costituiscono il vero petrolio italiano: ma allora c’è da domandarsi perchè sia sempre stato così mal estratto e mal supportato da carrozzoni impegnati a finanziare soprattutto costose “missioni” o ad assumere boiardi altrettanto costosi quanto inutili. Un efficiente sistema di supporto alle imprese che esportano e una più intelligente promozione del turismo, potrebbero trovare un magnifico mezzo di comunicazione in Rai International…ma anche questa occasione è stata dilapidata, grazie all’occupazione di partiti che l’hanno fatta gestire da loro fedeli assai poco esperti di marketing internazionale…Vorrei tanto vedere cosa sarebbero capaci di dire ora in proposito proprio i partiti che si ripresentano come nuovi dimenticando di aver  contribuito significativamente a soffocare una occasione simile!

Per la verità in diversi parlano di agenda digitale…

Già…ma anche qui se ne stanno tutti molto, troppo sulle generali. Cosa si propone ad esempio per la banda larga? Si continuano a sognare le sterminate praterie e il sempre nuovo Eldorado del web, dimenticando di chiarire che sono sempre troppo pochi quei giganti che ci guadagnano davvero sopra. Non c’è nessuno che abbia il coraggio di riprendere le ultime analisi di esperti americani pubblicate da Business Insider a fine dicembre, in cui si affermava a chiare lettere che la rete sta per collassare a causa dell’eccesso di gratuito videochiacchiericcio (48 ore di video caricate ogni minuto, 168 milioni di mail – in larga parte spam – 100.000 tweet, e molto, molto altro). Perché uno stato dovrebbe spendere cifre enormi per sviluppare una sempre più capiente infrastruttura di rete senza la garanzia che questa serva davvero allo sviluppo del lavoro e delle imprese? E perché dovrebbe farlo poi senza avere il potere e il coraggio di proteggere il diritto d’autore con misure anche severe, unica strada per uscire dall’inganno ipocrita che sulla rete tutto debba essere gratuito? (Nella vicina Francia lo hanno fatto).

Si renderà conto che questi sono temi ben poco popolari, che, anzi, rischiano di far perdere voti invece che conquistarne di nuovi…

 Se fosse davvero così, allora siamo davvero un paese che non crescerà mai. Credo invece che su questi pochi ma “fondamentali” temi i cittadini che hanno a cuore la sorte del loro paese si aspettino delle risposte precise e dettagliate, così da accordare la propria fiducia a chi sembra essere in grado di costruire per la locomotiva Italia una ferrovia con due rotaie entrambe robuste. Se si respira in giro ancora così tanta indecisione, ciò è dovuto proprio all’assenza di proposte concrete. Per esempio, sono convinto che se qualcuno proponesse un futuro sicuro ai minatori del Sulcis proponendo – sulla base delle esperienze ganesi –  la loro riconversione in coltivatori di jathropha (la pianta che cresce su terreni sassosi e senza bisogno d’acqua (!) e dalla quale si estrae il petrolio…) avrebbe forse più successo di chi semplicemente scandisce “la-vo-ro, la-vo-ro, la-vo-ro” o torna a riproporre le pur doverose riduzioni di tasse. Mai come oggi, invece che di parole vuote e generiche, o di parole usate come pietre, servono di più parole ricche di senso che finora non abbiamo ancora sentito.