Di biopic su Diana Spencer ne sono stati fatti tanti, forse troppi. Lultimo, firmato dalla penna registica tedesca di Oliver Hirschbiegel, però, ha un non-so-che di interessante. Sarà che sceglie una narrativa cinematografica differente da quella classica – basata solitamente sul pungente gossip – o forse sarà che si mette, stavolta, in luce quello che meno si conosce sulla vita della Principessa del Galles più amata di sempre. Diana – La storia segreta di Lady D colpisce davvero e quasi sconcerta. Là dove occhi indiscreti non arrivano, approdano quelli delle telecamere britanniche, che con il supporto di una sceneggiatura brillante ma spesse volte troppo irreale, ritraggono quel buco nero di incontri, sentimenti ed emozioni di cui ancora nessuno ha approfonditamente parlato.
Per la giovane Lady D limmenso non era il potere, ma lamore. Questo il filo doro attorno al quale i 113 minuti di film ricamano, raccontando come la (ex) moglie del Principe Carlo fosse molto più attenta al voler bene che alla razionalità delle sue azioni. Il suo tutto aveva un nome: Hasnat Kahn (Naveen Andrews) medico pachistano legato allIslam, che da amante prima, e compagno poi, è origine di ciò che, per qualche tempo, sembra tolga laggettivo triste al sorriso di D. Surclassato dal milionario Dodi Al Fayed, Hasnat continuerà ad amare Diana, per sempre, così come si racconta lei non smise di fare nei suoi confronti. Una relazione terminata per orgoglio e incomprensioni, addolcita da una regia talvolta troppo smielata, su di un racconto che già di per sé sembra più che irreale.
Hirschbiegel, si sa, non è però regista impreparato. Crea così una Diana ipnotica, certo aiutato dalla bellezza trasparente di Naomi Watts che, dice, ha lavorato moltissimo sul perfezionare il personaggio, puntando tanto sullimitazione – che arriva solo quando è indispensabile, quando occorre costruire momenti e immagini più celebri – quanto sulla malleabilità delle corde vocali, giocando su toni soffusi e sensuali come solo Lady D sapeva fare.
Interessanti anche le movenze e gestualità di Naomi-Diana che, racconta, ha faticato soprattutto su ciò che apparentemente potrebbe sembrare più semplice. Lei parlava ruotando il viso sulla sinistra. Io, invece, solitamente lo inclino sulla destra. Un piccolo particolare che, sommato agli altri, fa la differenza.
Un po’ triste il richiamo fiabesco alla struttura dei classici romanzi rosa, anziché a una vita da donna in grado di maturare pian piano, in funzione di quel cuore che troppo spesso Diana l’ha fatta sentir sola, arrivando addirittura ad autolesionarsi gli arti, perché “necessitava attenzione”. Quasi pensata come una super woman in odor di santità, Diana Spencer è raccontata qui come una persona tanto umana, poco trasparente e molto intrigante. Sicuramente buona, e più normale di quanto si creda.
Non si può allora che applaudire a un prodotto di genere come questo, che non fa commuovere o palpitare. Poche emozioni, niente felicità. Ma tanto, invece, sconcerto perché documenta, tra sogno e realtà, regno e normalità, quella che sempre verrà ricordata come la Principessa triste, la Principessa del Popolo, che ha trovato nella fama la sua persecuzione ma anche l’affetto di tutti. Colei che nonostante la tremenda solitudine provata ogni istante, sola non lo era e non lo è, perché ancora vive nel cuore di tanti. Quella Diana che, anche grazie a Naomi Watts, oggi possiam dire di conoscere meglio anche noi.