Attuale nella storia e drammatico nelle emozioni, Prisoners racconta langoscia che gli abitanti di una piccola provincia americana vivono per la scomparsa di due bambine. Due amichette di sei e sette anni che, nel giorno del ringraziamento, svaniscono nel nulla. La calma apparente di questi luoghi senza tempo, quasi cristallizzati in uningenuità immacolata, si dissolve in un caos piatto in superficie, ma tragicamente disordinato nel profondo. Il silenzio attonito della cittadina, la fiaccolata con cui gli abitanti pregano affinché le due bambine siano ancora vive e la fatica con cui affiorano alla mente casi simili rimasti irrisolti alimentano la sensazione di irreversibile impotenza di fronte a un mostro che sfugge.

Eppure si sa, o almeno lo si intuisce. Il colpevole è uno di loro. E di fronte a questa certezza consapevole, ma inafferrabile, le famiglie di Anna ed Eliza impazziscono. Ciascuno a modo proprio. Chi con violenza straziante come Keller (Hugh Jackman) o rifugiandosi negli psicofarmaci, come sua moglie. Chi, invece, resistendo al dolore in silenzio e tra le lacrime, come i genitori della piccola Eliza.

Il regista Denis Villeneuve, approdato allAcademy con la candidatura de La donna che canta nel 2011, è molto bravo nel descrivere visivamente la fatica – delle famiglie in attesa di ritrovare le proprie bambine e di noi spettatori che osserviamo con loro – che a tratti blocca il respiro. Cè, in questa storia, una forza potente che trascina verso il basso. Non è il senso di dolore per la perdita subita. , piuttosto, il bisogno di trovare una via duscita, sbloccare una situazione stagnante che sta per arenarsi definitivamente, liberarsi da un peso ingombrante che schiaccia il cuore.

La sensazione è che lincredulità per laccaduto riapra vecchie ferite che la provincia americana sottace. Mette da parte con rassegnazione, come polvere sotto il tappeto. Non si sa se per mancanza di tenacia nel perseguire la verità o se perché è più rassicurante – verso la strada del quieto vivere – abbracciare limmagine dellAmerica sorridente e pulita. Sta di fatto che le indagini per scoprire il colpevole si scontrano con tempi e metodi rigidi di un regolamento che sottrae spazio al detective Loki. Che, accompagnato da ombre cupe che gravano sulle sue spalle, vive questo caso come una missione di redenzione.

Sembra questa la parola chiave di Prisoners. Ogni personaggio, vittima o carnefice, ne ha bisogno. Vite ingabbiate nella tela di una normalità sottomessa. In cui è la normalità stessa, rassicurante nell’apparenza, ad alimentare e proteggere i mostri. Il regista non giudica i suoi personaggi. Alcuni di loro commettono fatti atroci. Ai limiti della perversione. Non offre nemmeno riscatto, ma li rende padroni del proprio destino, consentendo loro di trovare, se c’è, la propria personale via d’uscita.

Ci sentiamo solo di affermare che la redenzione che i personaggi di Prisoners inseguono è sociale, non religiosa. Perché è la società che ha creato i suoi mostri e che li culla nel suo ventre. Offrendo, certamente, loro la possibilità di espiazione, ma nel contempo punendoli per il male commesso in un dantesco gioco di colpa e contrappasso.

Oltre ai toni cupi e pesanti, anche la durata del film non gioca a favore della pellicola. Troppo dispersivo nello scandire i passaggi narrativi, questi si perdono fino a diventare uno dei tanti elementi che contraddistinguono la storia nella fatica emotiva evocata.