Dopo Gianfranco Rosi e Sacro GRA continua la riscossa internazionale del cinema del reale italiano che piazza allottavo Festival di Roma la vittoria di TIR, il film di Alberto Fasulo – documentarista di livello – che racconta una storia a soggetto preparandola e narrandola attraverso i moduli del documentario: un bel film che fa passare unidea di cinema interessante, essenziale, che cerca di comunicare attraverso modelli di visione differenti. Più che un emulo del film di Rosi, TIR, e la sua vittoria, dimostrano la fertilità del cinema del reale e delle sue estensioni, lunica scena cinematografica italiana davvero vitale. Interessante anche il premio alla regia per Seventh Code di Kurosawa Kiyoshi, assieme al riconoscimento al montaggio, segnale per un film che ha proprio nellidea di cinema, nella sua forma, il suo punto di forza, oltre a racchiudere nel finale linquadratura più bella del festival.
Poco da dire sugli attori: Matthew McConaughey in Dallas Buyers Club, dimagrito di 35 chili, e Scarlett Johansson in Her, che fa innamorare ogni spettatore e lo fa palpitare solo con le modulazioni vocali, sono premi meritati e previsti, e quasi le due visioni opposte dellarte dellattore, ovvero comunicare attraverso la manipolazione fisica o la pura vocalità. Meritato anche il premio allattore esordiente per il cast di Acrid, film iraniano le cui attrici dimostrano la forza della classe dinterpreti del Paese mediorientale.
Più discutibili il gran premio della giuria, assegnato al rumeno Quod erat demonstrandum, film più interessante e giusto che riuscito, e alla sceneggiatura di I Am not Him, bloccato in unidea simbolista di cinema dautore invecchiata. Sacrosanta invece la menzione per Cui Jian, il grande cantante e inventore di forme musicali che con il suo lavoro ha combattuto la dittatura cinese, che ha esordito alla regia con il vitale Blue Sky Bones. Nella sezione sperimentale CinemaXXI ha vinto Nepal Forever di Aliona Polunina, curiosa versione sovietica di un esperimento à la Borat con tratti folgoranti.
Il cinema italiano ha dato segnali interessanti, oltre il MarcAurelio a Fasulo: i due film in concorso hanno svelato anime differenti e vitali, dal noir partenopeo di Take Five al dramma rigoroso de I corpi estranei, e anche fuori dal concorso documentari, cinema di genere, commedie e film dautore a prendersi con la volontà e la tenacia quella varietà e ricchezza che lindustria non riesce a coltivare: che la vera salvezza derivi da chi il cinema lo fa contro tutto e tutti?
Il palmares in definitiva ha colto quasi tutti i film di interesse o valore del festival, con l’esclusione di The Mole Song di Miike Takashi, magari non premiando il migliore in assoluto (per chi scrive Herdi Jonze), ma puntando i fari sui titoli giusti. E anche il festival può dire di aver puntato i fari nella giusta direzione, quella del “festaval” come l’ha definita Muller, ossia manifestazione per cinefili curiosi e appassionati, ma anche luogo di ritrovo per i cittadini romani ai quali regalare bei film, grandi spettacoli, bagni di folla e prodotti di valore, come Snowpiercer, Il paradiso degli orchi, Las brujas de Zugarramurdi e altri. E se poi un festival serve a giustificare la presentazione e visione di un capolavoro come Hard to Be a God di Aleksei German, ben venga qualunque festival.