Domani ci vediamo? chiede la ragazza. No, ho un milione di cose da fare risponde Niko, il protagonista di Oh Boy – Un caffè a Berlino. Che cosa hai da fare?, lo trattiene lei. Silenzio. Niko Fischer non risponde. Non sa cosa inventarsi. La verità è che non ha nulla da fare. Nessun progetto. Il nulla ruota intorno al suo io. In una Berlino meravigliosa, in bianco e nero, deliziosamente multiculturale corre un eroe romantico che ama la vita e desidera un caffè, semplice, come le giornate trascorse in solitudine.
Niko non lavora, non studia, non si impegna, attraversa il domani osservando la gente, le contraddizioni del vivere quotidiano. Nella ferocia moderna che annichilisce tutto dentro spasmi di attivismo, Niko preferisce linerzia. Accoglie il vuoto, una condizione che non lo imbarazza, né lo mortifica: avere pochi spiccioli in tasca, una casa spoglia, un amore precario lo fa innamorare della sua stessa malinconia. meraviglioso attraverso Oh Boy ascoltare le musiche e osservare la fotografia, entrambe poetiche e raffinate. Neppure la brutalità del padre che richiama agli impegni, allo studio, al lavoro riuscirà a incatenare il protagonista nellodiata illusione borghese.
Niko è molto di più che un futuro avvocato, si sente un artista dellanima (colui che crea i suoi mondi interiori), non ha ambizioni: desidera parlare con un amico, fumare una sigaretta, assistere a uno spettacolo gratuito. Assaporare una tazzina di caffè, non composto da misture costose, è il massimo che il destino può concedergli. La vita è semplice come una consumazione da meno di un euro.
Oh Boy è un film che deve essere letto su piani diversi. Il volto di Niko (il bravissimo Tom Schilling), a metà tra un Leonardo Di Caprio e un giovane Michael J. Fox, richiama leroe romantico che si strugge dentro le percezioni; la musica jazz accompagna la macchina da presa donando un senso di eleganza ai panorami, tanto da rendere Berlino irresistibile, nel crogiolo di razze e popoli di cui è composta. Altra chiave di lettura potrebbe essere la feroce critica alla working society che il regista denuncia, lossessione capitalista per la carriera a tutti i costi.
La definizione di sé nella rappresentazione del lavoro che si svolge è la grande truffa che leggiamo dentro il film. Per Niko è molto più palpitante raccogliere le ultime parole di un barbone, sussurrate dopo fiumi di vodka, che vivere 8 ore al giorno dietro una scrivania. Certo, il protagonista non può essere un esempio della cosiddetta “meglio gioventù”, fatta di obiettivi e lavoro, ma diventa portavoce dei creativi spontanei, di coloro che raggiungono la felicità senza cercarne il senso o la chiave. Il futuro non esiste perché non bisogna temere il futuro, il lavoro non c’è perché si preferisce fare altro, lo studio non rappresenta un’opportunità perché è più interessante analizzare la propria solitudine.
Oh Boy è inquietudine allo stato puro. Ai tanti ragazzi che nelle manifestazioni agognano le molotov, sfasciano tutto dentro i cortei, lo stile di vita di Niko dovrebbe suscitare una riflessione. Altro che rabbia o azioni violente, occorre solo infilarsi nella caffetteria più vicina: un caffè decente è l’atto finale di un’esistenza ribelle.