Kathryn Bigelow fa centro un’altra volta. Dopo i 6 Oscar vinti nel 2010 con The Hurt Locker, siamo certi che anche quest’anno la donna più potente del cinema americano – allora in grado di sbaragliare la concorrenza maschile sottraendo ai colleghi la statuetta per la miglior regia – farà incetta di riconoscimenti nell’ormai prossima notte degli Oscar. Meritatamente. Perché Zero Dark Thirty affronta senza paure, né sentimentalismi un capitolo tra i più spinosi della Storia Contemporanea. Anzi, c’è un certo distacco nel modo in cui la coppia Kathryn Bigelow-Mark Boal (già sceneggiatore premiato di The Hurt Locker) decide di raccontare la cronaca. Lo dichiarano sin dall’inizio del film, quando una didascalia su schermo nero afferma che i fatti narrati sono realmente accaduti e le voci di alcune delle vittime di quel tragico 11 settembre sfilano in sottofondo, ricordando a noi, che ne siamo stati spettatori, la tragedia dei loro ultimi attimi di vita.
C’è molto in questo film. Talmente tanto, che il tono freddo che attraversa le scene quasi impedisce di cogliere tutto. brava, soprattutto, la Bigelow, a creare una sovrapposizione di significati che lei stessa mette a disposizione dello spettatore, offrendo a esso non un’univoca chiave di lettura, bensì gli strumenti necessari per crearsi una propria personale idea.
Certo è, bisogna ammetterlo, che è un film interamente a disposizione dello sguardo americano. Nel bene, ma anche nel male. Nel senso che Osama Bin Laden resta l’obiettivo, il focus verso cui tende ogni pensiero, ogni studio, ogni azione – che sia militare o dei servizi segreti – made in Usa. E per raggiungerlo è indispensabile ricostruire – o almeno tentare di farlo – la rete di soldati che sono al suo comando. Nomi di battaglia, nomi reali, uomini che, anche di fronte alle peggiori torture, non tradiscono il proprio ideale.
Ecco, qui il primo punto. Le torture. Cinematograficamente fastidiose, hanno regalato alla Bigelow una buona dose di accuse. Per lo più determinate dal suo apparente assenso all’utilizzo di queste tattiche finalizzate a estorcere informazioni fondamentali. Non c’è difesa dalla parte della regista. Solo un’osservazione che pone l’accento su un dato concreto. Il film vuole mettere in scena ciò che è realmente successo. In questo la Bigelow è brava. Non realizza un film politico, come molti altri avrebbero fatto. Mostrando come sono andate le cose, ci pone nelle condizioni di osservare e valutare.
Siamo certi che quello che la coppia Bigelow-Boal ha voluto fare sia stato raccontare quanto studio, quante notti spese ad analizzare ogni minimo dettaglio, fotografia o registrazione, quanta fatica abbia comportato arrivare a identificare il luogo in cui si nascondeva il terrorista più famoso del mondo. Il tutto raccontato attraverso una sceneggiatura originale, certamente – e per la quale Mark Boal ha appena vinto il più alto riconoscimento conferito dalla American Guild Writer -, ma fortemente ispirata a personaggi reali.
Come quello di Maya (Jessica Chastain, vincitrice del Golden Globe come migliore attrice protagonista nel 2013), una giovane recluta della CIA, nella cui forza d’animo e determinazione non possiamo non riconoscere, almeno in parte, il carattere deciso e fiero della regista. Il film parla di lei, in fondo. Che ha speso quasi dieci anni della sua vita al servizio di un’ideale. Trovare Osama Bin Laden ed eliminare il nemico più minaccioso per la civiltà occidentale.
Noi viviamo insieme a lei la fatica fisica e mentale di quest’impresa che sembra quasi impossibile. Perché non serve solo essere bravi. È necessario molto di più. La convinzione, soprattutto, di voler e poter centrare l’obiettivo. Nonostante la Bigelow mantenga vivo anche nell’approfondimento del personaggio di Maya il distacco emotivo che caratterizza la grammatica narrativa e registica del proprio sguardo, non possiamo non essere travolti e coinvolti dalla tenacia che contraddistingue questa giovane e bella donna. Che quasi resta sola nella guerra a Bin Laden, perché tutti, o quasi, sono troppo deboli per arrivare fino in fondo. C’è Dan, freddo e instancabile nelle torture che applica ai prigionieri, ma che a un certo punto torna a Washington per fare carriera. Bradley, a capo di quest’unità della CIA in Pakistan, a cui sembra mancare il nerbo per guardare e andare oltre. Jessica, infine. Madre di tre figli e totalmente devota, come Maya, alla causa.
C’è una differenza fondamentale, però, tra loro due. Ugualmente alimentate dalla passione per questo mestiere e focalizzate sull’obiettivo principale, Jessica si abbandona a un’emotività scarsamente controllata, mentre Maya resta fredda e imperturbabile nei suoi gesti. Non possiamo dire quale sia lo slancio vincente (rovineremmo la visione del film), ma ci permettiamo di abbracciare totalmente il personaggio di Maya, facendoci condurre da lei nell’intricato labirinto di quest’impresa.
Distacco, dunque. Anche, come già abbiamo anticipato, nella regia, che non è invadente nei movimenti, ma totalmente al servizio dell’immagine e dei fatti raccontati. Basta la scena finale a farci commuovere. Ancora completamente dedicata a Maya. Lei, metafora di un’America che non si è arresa alla morte, ma ha combattuto fino all’ultimo per vendicare l’11 settembre. Ora che la missione è compiuta, resta solo il vuoto di anni, che si sbriciolano alle sue spalle, dedicati a un unico e imprescindibile credo.