Questultimo di Gus Van Sant (Promised land) è un film rassicurante – il che può avere dei pregi, ma anche dei difetti. In tutte le sue parti. Nella storia, prevedibile sin dallinizio nel modo in cui evolverà. Nella patina classica che contraddistingue lo stile e la narrazione. Si lascia guardare, insomma, senza però imprimersi nella memoria dei film imperdibili. Ci fa dimenticare, soprattutto, che a firmare la regia sia Gus Van Sant, lo stesso di Will Hunting – Genio ribelle e di Elephant, Paranoid Park e Last days.

Non ci interessano le motivazioni di questo suo scivolone, se così si può definire. Proveremo a concentrarci maggiormente sul messaggio di questa storia tendente al buonismo dellintelligenza politically correct made in Usa. Che, detto per inciso, nonostante lintento di denuncia alla Erin Brockovich, devia verso un pizzico di retorica.

Matt Damon (lo stesso che abbiamo tanto amato nei panni di Jason Bourne!) è Steve Butler, un giovane uomo che insegue il sogno di fare carriera. O meglio, forse non è esattamente così. Steve, al servizio di unimportante compagnia petrolifera, la Global, cerca ancora di emanciparsi dalla dimensione agricola del piccolo paese da cui proviene. Ma la sua parabola ascendente – di crescita personale e professionale – non si realizza secondo i suoi piani. Che prevedevano la facile equazione studio, lascio il piccolo paese per trasferirmi in una grande città, ripongo ogni mia convinzione in un lavoro che mi possa regalare il successo.

Apparentemente nulla fa una piega. Quello del personaggio di Steve è il tipico percorso del self made man, delluomo che dal nulla diventa qualcuno. Lui, in effetti, ha tutte le carte in regola per interpretare il modello americano. Ma – cè un ma – a differenza del freddo cinismo che di solito alimenta questo genere di personaggio, il ragazzo ha unanima. Non agisce per calcolo, ma spinto da una forte motivazione interiore. Che parte – qui il buonismo retorico – dal cuore. Dalla necessità di darsi – e dare – un futuro migliore a chi come lui è nato in una zona che nulla ha da offrire.

Questa è la convinzione, decisamente sentimentale, che lo spinge nel suo lavoro. Di cui vede solo il lato positivo, ovvero lunica possibilità che gli abitanti del centro rurale cui la Global offre un mare di soldi per trivellare il loro terreno hanno per migliorare le proprie condizioni di vita. Non vede tutto il resto, Steve. Certo, è molto bravo nel convincere le persone, ma, animato da cieco sentimentalismo, si perde la parte sporca e ingannevole del suo lavoro. Quella marcia, affaristica e opportunistica della compagnia petrolifera, che se ne infischia, a quanto pare, dei suoi particolari clienti e di tutte le conseguenze fisiche e territoriali che la trivellazione del suolo può comportare. Alla fine è solo un lavoro gli ripete meccanicamente Sue, più anziana di lui, madre in equilibrio precario con un figlio da mantenere e una quotidianità da affrontare da sola. Altro che cuore per lei. La necessità, invece, di fare bene il proprio lavoro e di portarlo a termine in fretta a prescindere dalle implicazioni sentimentali di Steve o meramente opportunistiche della Global.

Già, è solo un lavoro, ma non per Steve. Che quasi impazzisce nel combattere contro le ritrosie della gente, animate da un accanito ambientalista che fa la sua comparsa in paese. Steve è un idealista ed è a tratti commovente per noi spettatori, che lo guardiamo da lontano curiosi di conoscere la sua intima evoluzione, osservare in quale modo genuino – e per questo goffo – si muove in un mare di pescecani.

L’effetto di una regia e narrazione classiche è proprio questo. Pone lo sguardo di noi spettatori in una prospettiva lontana e distaccata che ci permette di vivere comodi e a braccia incrociate la sua parabola ascendente. C’è un particolare che ci fa sorridere. L’attaccamento di Steve ai suoi scarponi. Logori e totalmente consunti, sarebbero da buttare. Steve, invece, li indossa sempre. Perché sono di suo nonno e gli ricordano la fatica che li unì un tempo nella “piccola” vita di campagna. Crediamo sia proprio questo il messaggio del film. Che, per quanto ci si sforzi di trovare la propria strada, spesso anche negando le proprie origini o semplicemente mettendole da parte, ci è possibile individuare il percorso che ci porterà a capire chi siamo e come possiamo costruire la nostra vita a partire proprio dalle nostre radici.

Non è rinnegandole che ci fortifichiamo, ma celebrando e tenendo vivo il nostro senso di appartenenza. Come fa – per molto tempo inconsapevolmente – Steve.