Tra titoli più attesi e annunciati più di recente, Pinocchio di Enzo DAlò arriva nelle sale dopo la 69esima mostra del cinema di Venezia nella sezione collaterale delle Giornate degli autori: un progetto lungamente caldeggiato dopo la pausa imposta dalluscita del Pinocchio di Benigni e che ha portato il maestro dellanimazione italiana a far uscire il film nelle sale a carnevale dopo aver perso l’uscita natalizia. La storia è arcinota, anche se qui lispirazione al romanzo di Collodi è più diretta rispetto ai classici Disney o altro: il falegname Geppetto per non restare solo si costruisce un bambino da un ciocco di legno parlante. Il burattino però è tuttaltro che obbediente e coinvolgerà il padre in avventure incredibili.



Scritto da DAlò con Umberto Marino, Pinocchio cerca di ritagliarsi un posto tra le infinite traduzioni della favola puntando molto sulle matite e i colori di Lorenzo Mattotti, praticamente un co-autore, e le musiche di Lucio Dalla, ma anche sullimmediatezza del racconto che scivola dalla robusta e magnifica versione disneyana per restituire una versione quasi minimale. Che più di una storia sulleducazione di un bambino anarchico, nelle mani del regista diventa una piccola elegia sullessere padre e sulla difficoltà di insegnare ai propri figli a essere uomini (e quindi bambini) in un mondo in cui la giustizia e lonestà funzionano al contrario e il denaro pare lunica autorità. DAlò contamina lonestà e lumiltà del progetto, lo sguardo diretto ai più piccoli con lambizione di farne una sorta di Odissea – non a caso, ricorre il mare – che mescola la magia e la malinconia.



La breve durata costringe la sceneggiatura a fare i salti mortali e le costrizioni di racconto tolgono respiro soprattutto alla prima parte, ma poi Mattotti fa esplodere la propria fantasia, i colori invadono il film con tocchi onirici e il jazz sbilenco e fiabesco di Dalla li accompagna con leggerezza, così come le voci dei doppiatori che non irrompono con violenza, ma tratteggiano con delicatezza, come Rocco Papaleo e Paolo Ruffini.

D’Alò continua un percorso a suo modo invidiabile e ammirevole. Anche se viene il sospetto che avrebbe bisogno di produzioni più coraggiose, che non costringano il film a 78 minuti quando ne servirebbero almeno 90.