Dopo otto puntate e non poche polemiche sulla necessità di raccontare la Camorra in tv, nonché le proteste degli abitanti di Aversa, cittadina che ispira quella in cui è ambientata la fiction, oggi si chiude con l’ultima puntata Il clan dei camorristi. Ispirata a fatti realmente accaduti in Italia dal 1980 al 1998, ma con i nomi dei personaggi totalmente riadattati (eccezione fatta per Cutolo, che però compare solo nella prima puntata), la fiction racconta la nascita e l’ascesa del Clan dei Casalesi, guidato da Francesco Schiavone, detto Sandokan, e del contrasto che gli ha opposto tenacemente la magistratura. A rappresentare le due fazioni il boss Francesco Russo, detto O’ Malese, interpretato da Giuseppe Zeno, e l’integerrimo giudice Esposito, nato in Campania ma cresciuto a Torino, che ha il volto di Stefano Accorsi. La Taodue, ormai affermata casa produttrice cinematografica e televisiva, ha deciso di affidare la regia della serie a due giovani registi: Alessandro Angelini e Alexis Sweet. E se abbiamo sentito Sweet per la prima puntata, abbiamo deciso di chiudere con Angelini, che ci ha raccontato il lavoro sul set e i retroscena di una produzione così impegnativa, non solo a livello tecnico ma anche emotivo.
Oggi va in onda l’ultima puntata della serie. Ora che la situazione per O’ Malese sta precipitando, quali colpi scena ci dobbiamo aspettare?
Non posso rivelare quali colpi di scena ci saranno… perchè ce ne saranno molti! Non mancheranno sicuramente delle sorprese, per cui è una puntata da non perdere. E poi chiude idealmente il ventennio che va dal 1980 al 1998, raccontando la storia della malavita organizzata in un periodo immediatamente antecedente a quello che stiamo vivendo adesso. Gli sceneggiatori hanno sicuramente raccontato queste vicende con più audacia di quanto farebbero i libri di storia.
Qual è stata la scena emotivamente più forte da girare?
Difficile dirne una sola, devo sceglierne di più… ad esempio, la scena iniziale del terremoto, poi quella del ritrovamento del figlio del giudice Esposito dopo il rapimento, e la morte di don Palma, con la manifestazione di affetto delle persone che vanno al suo funerale. Dato che è ripresa dalla storia reale di don Diana, ucciso dalla Camorra, mentre giravamo la scena c’era la sensazione di toccare un argomento molto sofferto, la sensibilità delle persone verso la morte di una vera vittima della criminalità.
Vanessa Compagnucci ci ha raccontato come tra Alexis Sweet e lei ci sia una certa divisione delle scene, con lei che si occupa più delle scene drammatiche e Sweet di quelle d’azione. E’ stata una scelta obbligata per motivi tecnici o non era una situazione così definita? Come avete collaborato?
Come prima cosa devo dire che è stata una collaborazione molto proficua e molto ricca. Ho trovato in Alexis un compagno di viaggio straordinario, una persona e un regista che mi ha trasmesso molto del suo universo, quindi in questo senso è stata una collaborazione molto fortunata. Che non è nata proprio per caso, dato che avevamo alle spalle una produzione molto forte. Valsecchi è un produttore molto capace e di fatto ci ha messi insieme lui: io e Alexis non ci conoscevamo prima. Per quanto riguarda la divisione delle scene… beh, è evidente che lui è più attratto da un certo tipo di narrazione rispetto a me, ma non c’è stata una separazione così netta. Siamo due registi sicuramente diversi e con esperienze differenti alle spalle, ma ci siamo siamo trovati entrambi a girare scene d’azione e non. Poi c’era una cosa che cementava questa collaborazione: lo stile di ripresa con cui raccontare i casalesi.
Come vi siete preparati alle riprese?
Prima di girare ci siamo incontrati per scambiarci impressioni e informazioni, e siamo convenuti sull’idea di girare con uno stile quasi documentaristico, di strada, adatto a raccontare un gruppo di persone che viene dal basso, attratto dal potere, dai soldi, dalla smania di comandare: ci sembrava lo stile giusto per la storia. Detto questo, era già fatta metà dell’opera. Comunque devo dire che con Alexis è stata davvero una collaborazione molto proficua e capace di arricchirmi.
Un regista, grazie alla sua abilità nel saper dirigere gli attori, può aiutarli veramente a dare il meglio (o il peggio) nella loro interpretazione. Qual è il suo metodo in questo campo?
Bisogna dire che anche il regista è aiutato dagli attori. Se l’attore recita molto male, posso anche fare l’inquadratura più bella del mondo, ma quella che passa è una dissonanza: avrò un’inquadratura molto bella, ma che non è al servizio della storia, né dell’attore Ci vuole un incontro a metà strada! Poi è molto importante arrivare sul set con le idee già chiare su ciò che si vuole girare, che è già una direzione per l’attore.
In che modo?
Da regista giro 100 giorni di fila, mentre gli attori lavorano un giorno e poi magari tornano dopo una settimana: quindi anche per loro non è semplice tenere le fila della situazione. Io ho una visione dall’alto di dove va a parare il personaggio e già dall’inizio, nel momento in cui si legge il copione, comincio a dire “io il personaggio lo vedo così” e l’attore ha tempo di studiare e prepararsi. Se poi questo non bastasse c’è sempre la possibilità di far incontrare l’attore con la persona più vicina al personaggio. Ad esempio, Accorsi si è incontrato più volte col giudice Cantone, che ha seguito il processo Spartacus contro il Clan dei Casalesi.
Tra i suoi lavori precedenti a questa fiction ci sono alcuni documentari e alcuni lavori per il grande schermo. Com’è stato il passaggio da film per il cinema a una produzione per la tv?
Ultimamente i tempi del cinema sono diventati come quelli della tv. Forse ai tempi in cui facevo l’aiuto regia c’era una differenza: la tv era quella che andava di corsa e il cinema aveva tempi più lenti. Oggi sono pochi i registi che possono permettersi di girare con tempi più lunghi. Sicuramente la tv è un’ottima palestra, perchè mettendo insieme 100 giorni di riprese ti costringe ad avere idee ogni giorno e a portarti avanti: mentre lavori su una scena devi già pensare all’impostazione di quella successiva. Poi è una grande soddisfazione portare a casa una giornata dove c’è del materiale che ti piace e dove hai lavorato bene con gli attori.
Il suo film d’esordio, L’aria salata, è una storia drammatica, e anche Il clan dei camorristi non si discosta dai toni del dramma. Le piacerebbe cambiare registro?
I film per il cinema sono un po’ rappresentativi dei momenti che uno vive o che ha vissuto, perciò non posso escludere che prima o poi girerò una commedia. Finora non mi è capitato, e sarebbe un bel cambio di registro, anche se devo dire la verità: il cinema racconta la vita, le storie di esseri umani, quindi è inevitabile che un film, come la vita, racchiuda in una storia drammatica anche scene divertenti, da commedia.
Quale tipo di fiction le piacerebbe girare più avanti? Ha dei progetti in partenza?
Per quanto riguarda i miei progetti futuri, adesso sto girando una serie sempre con Taodue: Le mani dentro la città. Parla della ‘Ndrangheta a Milano e si presenta come una storia drammatica ma necessaria, secondo il mio modo di vedere: perché racconta un po’ quello che sta succedendo nel nostro Paese. La Taodue ha un po’ questo marchio di fabbrica: si prefigge di raccontare storie attuali, della quotidianità italiana. Le sue produzioni sono le storie che leggiamo sui giornali, e questa collusione tra malavita e il mondo degli affari, della politica è una cosa che sta a cuore a molti.
(Nicoletta Fusè)