Lamore di una madre è come quello della Terra per i propri figli. Incondizionato. Anche quando un dramma improvviso sconvolge le certezze che lo rendono unico e irripetibile. Lorraine Levy sceglie con Il figlio dellaltra di raccontare latavico conflitto tra Israele e Palestina attraverso la sofferenza di due famiglie che si ignorano, in qualche modo, al di là delle reciproche barricate politiche e storiche, ma che sono costrette a confrontarsi e accogliersi nella loro speciale diversità.
Si tratta della famiglia di Joseph, israeliano ed ebreo convinto per sentimento ed educazione. Figlio di Orith, medico dai dolci occhi azzurri, e Alon, Colonnello dellesercito israeliano. Il servizio militare è alle porte per Joseph, anche se lui è rock nellanimo e culla il sogno di diventare un grande cantante. Un dovere, quello della leva, che il giovane uomo è deciso ad accogliere, se non fosse che dalle analisi del sangue si scopre che lui, in realtà, non è figlio di Orith e Alon. Perché nel lontano 23 gennaio 1991, quando Joseph vide la luce, sullospedale si abbatterono dei missili scud. Così lui, appena nato, fu messo in salvo, per poi essere involontariamente scambiato con un altro bambino. Che si chiama Yacine e vive tra Parigi, dove sogna di diventare medico, e un paesino in Cisgiordania, dove i suoi genitori subiscono loccupazione della terra di Palestina.
La Levy è coraggiosa nello scrivere un film complesso nei significati. Riesce, nonostante la sovrapposizione di sensi che le vicende messe in scena implicano, a scivolare verso una costruzione e uno sviluppo semplice e lineare. evidente che le due famiglie siano il simbolo di due terre confinanti, separate dalle diversità religiose e culturali che la Storia usa come pretesto per seminare odio tra le parti. Colpite, famiglia e Patria, al cuore pulsante del proprio amore. Lidentità dei propri figli. Questa storia è come un fiore. Un bocciolo di cui vediamo solo i petali esterni, ma che pian piano si dischiude mostrando tutta la sua bellezza. Al di fuori, dunque, il problema da parte di Jospeh e Yacine, di come affrontare la loro nuova vita. Che comporta mille altre domande in cerca di risposta e tanti altri significati.
Senza toccare la questione religiosa, si pensi alla già fragile identità che due giovanissimi uomini, da poco usciti dalladolescenza e in cerca di sé, seppur piuttosto fieri e decisi verso un futuro preciso e consapevole, cercano di definire. In rapporto al proprio essere figli e futuri adulti, alle aspettative paterne, allamore incondizionato delle madri. A questo si aggiunga poi il più complesso universo religioso. Joseph nasce e cresce ebreo. Disciplinato studente, forse uno dei migliori, allimprovviso si trova defraudato della sua fede religiosa perché i precetti affermano che, alla luce dei nuovi dati emersi, non essendo figlio di madre ebrea, non può essere ebreo di sangue. Così come lo è, quasi paradossalmente, Yacine, da sempre di credo musulmano.
Come a dire che una persona si definisce in base a due livelli. Quello più esterno, legato al contesto culturale e qui anche religioso in cui si cresce, che regola la nostra esistenza sulla base di dettami e schemi intellettuali, e quello più personale, fatto di emozioni e convinzioni. Anche se è inevitabile che quest’ultimo sia influenzato dall’ambiente in cui si forgia. Resta, però, una parte viva e autentica, che cresce e si alimenta al riparo dai condizionamenti esterni. È quella che, come fosse scritto nel DNA, porta Joseph a essere naturalmente portato alla musica, come il suo vero padre. E Yacine ad avere il sogno di diventare medico, come Orith. Qual è, dunque, la parte autentica di noi? Quella influenzata dalle strutture sociali e culturali o quella innata? Ci sembra di poter dire che la risposta suggerita dalla regista sia quella del compromesso. Mantenere vivo e autentico il nostro IO, coniugando e traducendo sulla sua grammatica l’ambiente che ci circonda.
Come per le due Terre separate dall’odio di una guerra che sembra non finirà mai. Israele e Palestina. Joseph e Yacine. Amati dalle loro madri, quelle che li hanno cresciuti e cullati e quelle naturali, ma osteggiati, in qualche modo, dai loro presunti padri. Come a dire, pensando a questi due territori che si odiano, che anche la Patria è come una famiglia. Con dei figli, che cercano se stessi, delle madri, che li ameranno indipendentemente da quello che loro faranno. E dei padri, l’osso duro del nucleo. Quelli che hanno certe idee e non se le tolgono dalla testa, incapaci non di amare, ma di ammorbidirsi per provare a capire meglio. Se solo provassero a essere meno duri e si lasciassero condurre dal seno materno. Forse ci sarebbero meno conflitti. Forse non si raggiungerebbe la pace definitiva, ma sicuramente si aprirebbe la via del dialogo e del compromesso. Come accade tra Joseph, Yacine e i loro rispettivi padri.
Non è impossibile la convivenza tra entità diverse. Stiamo parlando – anzi la regista sta parlando – di queste due famiglie, ma anche delle due rispettive Terre. Bisognerebbe solo dimenticare le differenze e trovare il punto in comune da cui ri-partire. Che in ogni caso è l’amore e l’apertura verso la libertà altrui. Solo le madri sanno essere naturalmente accoglienti. Verso ciò che nasce dal proprio ventre e verso ciò che ne è estraneo, ma, nel suo essere indifeso, ugualmente figlio. Allora forse è questo il segreto. L’accoglienza. Come si fa, altrimenti, a dialogare se non si è in grado di aprirsi all’altro?