Come avrebbe reagito Dante se avesse saputo che, attraverso TuttoDante, la sua opera sarebbe stata letta in televisione davanti a milioni di telespettatori? Avrebbe snobbato levento e loccasione? O, al contrario, lavrebbe considerata una circostanza per divulgare la sua opera e perseguire il fine per cui ha composto la Commedia ovvero quello di rimuovere i viventi, cioè noi finché siamo in vita, dalla condizione di miseria, di peccato, di tristezza, e accompagnarci alla felicità e alla beatitudine?



Senzaltro è attendibile limmagine di un Dante sdegnoso tramandataci da Boccaccio e da Franco Sacchetti che racconta nel Trecentovelle un aneddoto nel quale Dante avrebbe addirittura rotto gli arnesi del mestiere di un fabbro che osava declamare, storpiandola, la sua opera (il racconto, del resto, attesta anche la fama pubblica conseguita dal sommo poeta in vita). altrettanto vero, però, che Dante si è sempre sentito animato da una missione culturale. Una delle più alte attestazioni di questo compito è il proemio del Convivio in cui il fiorentino afferma che la conoscenza della verità, ovvero la sapienza, è non solo connaturata alluomo, ma è addirittura la perfezione ovvero il compimento della natura umana: «Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione.



Nella conoscenza luomo si realizza, si perfeziona nella sua natura. Riecheggiano qui le parole evangeliche: «La verità vi farà liberi. Dante seleziona, però, il suo destinatario, non scrive per tutti, esclude quanti siano colpiti da «malizia, ovvero non desiderino il bene per sé. Importante è, infatti, che la libertà si giochi pienamente per il proprio bene. Nel proemio del Convivio ancora Dante scrive di essere stato mosso dalla naturale amicizia che lega luomo al proprio simile e, nel contempo, dal sentimento di gratitudine per aver avuto loccasione di nutrirsi alla mensa della cultura e della verità. In pratica, scevro di qualsiasi ingenuità, il poeta afferma che la persona è per natura mossa ad aiutare il proprio simile, anche se spesso poi si comporta diversamente, ma per debolezza e fragilità, non tanto perché la natura umana sia cattiva. La missione culturale scaturisce, poi, non soltanto dallimpeto di bene che alberga nel cuore delluomo, ma anche dal senso di gratitudine per aver incontrato persone sapienti, che si erano nutrite al banchetto della sapienza. La missione culturale non nasce, quindi, dalla presunzione di essere meglio degli altri.



Per questo sono convinto che Dante avrebbe accettato la diffusione della sua opera, se di buona qualità, con qualsiasi mezzo. Dante è animato da una missione e, nel contempo, non vuole perdere la fama presso coloro che il suo «tempo chiameranno antico, cioè noi moderni o postmoderni, vuole essere letto, amato, compreso. A distanza di settecento anni, Dante è in prima serata nel più potente mezzo massmediatico che raggiunge milioni di spettatori.

Ma è davvero apprezzato? Davvero è capito? Il pubblico apprezza la recita istrionica di un attore come Benigni o capisce che bisogna intraprendere il viaggio che Dante propone? Non esultiamo troppo per il fatto che Dante è in prima serata. Si corre il rischio di esaltare Benigni e non capire Dante. La Commedia deve ritornare a essere applaudita per quel che è, non ridotta. Dante deve ritornare a essere amato e studiato nelle scuole e nelle università, proprio là dove è stato esiliato negli ultimi decenni. La Commedia parla dell’uomo, della vita, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione del genio proprio del suo autore. Se tutti sono colpiti dalle parole cortesi di Francesca, dalla forza d’animo di Farinata e dal suo desiderio di «ben far», dall’ardore di conoscenza di Ulisse è perché il poeta racconta storie che testimoniano il cuore dell’uomo di ogni tempo. La Commedia ci spalanca una finestra sulla vita e sull’uomo di oggi, come del passato. Avvertiamo una comunione universale tra noi moderni e gli antichi, tra la nostra e la loro aspirazione alla salvezza, alla felicità e all’eternità. Ci accorgiamo che l’antico Dante sa esprimerci meglio di quanto sappiamo fare noi, così come il maestro Virgilio nel viaggio sa intendere il discepolo meglio di quanto questi sappia fare.

Farideh Mahdavi-Damghani, che ha tradotto in persiano La vita nova e la Divina Commedia, ha detto: «La gente in Persia non conosceva Ravenna, non sapeva che è la città in cui è sepolto Dante, ma vedendo tutto quello che io amo fare per questa città, leggendo le mie traduzioni, il pubblico persiano ora conosce Ravenna. C’è questo paradosso: siamo lontani dal punto di vista culturale, ma nello stesso tempo siamo molto vicini: le credenze sulla famiglia, sull’emotività, sull’amore per la poesia e la letteratura, cose primordiali che forse per altri paesi hanno minore importanza, sono molto simili in Italia e in Persia. Quindi si può dire che gli italiani somigliano ai persiani». Questa è la ragione della speranza dell’uomo di oggi. Il fatto che noi tutti abbiamo un cuore che può palpitare di fronte alla bellezza, alla verità e all’amore, un cuore che non ci inganna. Dobbiamo avere il coraggio di confrontare tutto con questo cuore. Chi legge la Commedia col cuore non può che percepire come essa parla di lui, della sua aspirazione ad una vita piena, alla felicità e alla salvezza. Consigliamo a tutti di intraprendere il viaggio con Dante, di iniziare a guardare la profondità del proprio animo, la nostra capacità di male.

«Dante è un amico contemporaneo», dice Benigni, nel commento del canto XV dell’Inferno, trasmesso ieri sera su Rai Due. L’attore si concentra sullo spirito di osservazione della realtà che Dante dimostra. Se la realtà è più ricca di ogni pensiero umano, sarà anche sorgente di ispirazione per ogni discorso o fatto artistico. Tutta l’arte e l’ispirazione dantesche nascono da questa acuta capacità di osservazione dell’umano sentire, delle passioni, delle gioie e delle sofferenze. Davvero a Dante si addicono le parole dell’antico latino Terenzio: «Sono uomo, nulla di ciò che è umano reputo a me estraneo». Non c’è aspetto che venga bandito, non c’è vizio o debolezza che non meritino ospitalità nella sua produzione quali espressioni di quest’essere miserabile, ma, nel contempo, grandioso che è l’uomo.

Dante è ben conscio che qualsiasi espressione artistica, anche quella che riguarda il mondo soprannaturale, per eccellenza il luogo non rappresentabile, debba rifarsi al reale. Quando ci deve rappresentare gli argini che delimitano l’orribile sabbione del girone dei sodomiti nel cerchio VII dell’Inferno, il cerchio dei violenti, Dante richiama al lettore la visione degli argini costruiti da mani umane: «Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,/ temendo ‘l fiotto che ‘nver’ lor s’avventa,/ fanno lo schermo perché ‘l mar s’avventa,/ e quali Padoan lungo la Brenta,/ per difender lor ville e lor castelli,/ anzi che Carentana il caldo senta:/ a tale imagine eran fatti quelli,/ tutto che né sì alti né sì grossi,/ qual che si fosse, lo maestro félli»

«Dante divide l’atto dal peccatore come vuole l’etica cristiana» continua Benigni. Dante prova una gratitudine immensa, una riverenza e una tenerezza per il suo maestro che gli ha insegnato «come l’uom s’etterna». Nel contempo pone il suo maestro tra i sodomiti, nel settimo cerchio, tra i violenti contro natura. Il cuore del canto è costituito dalle parole che il discepolo Dante rivolge al maestro Brunetto: «Se fosse tutto pieno il mio dimando»,/ rispuos’ io lui, «voi non sareste ancora/ de l’umana natura posto in bando;/ ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora,/ la cara e buona imagine paterna/ di voi quando nel mondo ad ora ad ora/ m’insegnavate come l’uom s’etterna:/ e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo/ convien che ne la mia lingua si scerna». Dante ha scelto l’eternità del Cielo, oltre che quella della fama terrena, Brunetto si è fermato alla fama terrena. «Per salvarsi bisogna passare per la fogna dell’umano» (Benigni) e attraversare i meandri più oscuri del proprio male, ma anche, però, far tesoro di quanto ci viene insegnato («Bene ascolta chi la nota»).

A un certo punto, nel commento del canto XV dell’Inferno, Benigni incorre nell’errore di leggere l’opera di Dante secondo il pensiero debole contemporaneo. L’attore afferma che Dante non condanna in sé la sodomia, ma la «violenza di cui parla Dante sta nel fatto che sono gente di Chiesa. […] La violenza sta nell’intimidazione, in un sopruso morale su dei ragazzi che venivano conquistati in maniera più violenta. La violenza non è nell’essere omosessuale in sé», ma nell’usare le proprie facoltà intellettive per conquistare persone più giovani. Mi sembrano troppe parole per spiegare il peccato di Brunetto Latini e per nascondere la semplicità del giudizio di Dante secondo il quale la sodomia è contro natura. Non si può concordare con questa lettura di Benigni che mi ha destato l’impressione di non voler sollevare polemiche e di accondiscendere, invece, al relativismo etico odierno, che certo non è di Dante e della sua epoca.