Rai Due sta trasmettendo la lettura di alcuni canti della Divina Commedia fatta da Roberto Benigni alcuni mesi fa a Firenze. Al di là del giudizio specifico sul programma, certo positivo, e anche del suo risultato di ascolto, buono anche se non strepitoso, levento può essere spunto per una riflessione più generale: si può fare poesia nella televisione generalista doggi? E non nelle tv tematiche o in fasce marginali del palinsesto, ma lì dove ancora si raccoglie il grande pubblico? Quello di Benigni è un modello ripetibile?



Per la tv la parola è fondamentale, molto più dellimmagine. Come sanno bene coloro che lhanno studiata, la televisione è figlia della radio, non del cinema. Mentre un film, al limite, può essere muto, quasi nessun prodotto tv potrebbe aver senso senza parola. In certe fasce di programmazione la televisione si tiene accesa come sottofondo sonoro durante lo svolgimento delle faccende domestiche. Più che guardare, si ascolta.



I broadcaster valorizzano i programmi di parola perché sono serializzabili, costano poco e sono flessibili. Ma, per la maggior parte dei casi, la parola su cui si fondano non ha profondità. chiacchiera, dialettica superficiale, luogo comune. Ciò non è per forza negativo. Ogni strumento di comunicazione ha il suo ruolo specifico e quello della tv generalista è innanzitutto intrattenere. Perciò, nei limiti del rispetto della persona e ovviamente del buon gusto, la chiacchiera televisiva è non solo lecita, ma talvolta benvenuta. Ma la poesia, che spazio può avere nei nostri palinsesti?

Ci sono esempi virtuosi. Quello di Benigni lo è sicuramente. Ricordo anche le intense apparizioni tv di Alda Merini. Più in là nel tempo Ungaretti che introduceva lOdissea televisiva. Tra le esperienze personali, ebbi la fortuna di produrre unora di rara televisione, quando Vittorio Sermonti lesse lultimo canto del Paradiso di Dante davanti a papa Wojtyla, in una bella sera a Castel Gandolfo. Ma sono eccezioni. Benigni è unico, Ungaretti un gigante, la Merini una storia personale straordinaria.



Il fatto è che la televisione è figlia della fretta, la sua narrazione si deve consumare rapidamente, perché deve forzare lattenzione. La telecamera brucia ciò su cui punta lobiettivo. Invece, la poesia vuole da noi il tempo. Innanzitutto nel senso più profondo, che lega il tempo alla verità. Io non voglio qui aprire la questione sconfinata dei rapporti tra poesia e verità (mi si consenta solo di consigliare gli scritti del filosofo Carlo Mazzantini, primo studioso di Heidegger in Italia). Dico però che più il tempo accumula vere esperienze nella memoria, più si capisce certa poesia, la stessa che magari abbiamo letto senza emozione alle scuole medie. Perché le parole che significano qualcosa per lesistenza rivelano la loro ricchezza e luminosità non come un progresso lineare, ma come un approfondimento, quasi un ritorno a spirale, che ha bisogno del tempo.

Si legge da soli, ma si capisce accompagnati da un maestro e questo richiede la pazienza dell’educazione. Ma, in secondo luogo, la poesia vuole il nostro tempo anche in senso concreto: bisogna darglielo. Non credo sia tanto una questione di pianificazione, ma, un po’ come per la preghiera – e spesso coincidono -, di accompagnare le ore della giornata coi versi imparati – leggere e rileggere ! – a memoria. Comunque, un po’ di tempo occorre anche sottrarlo al resto.

Personalmente, ho sul comodino “Le mie letture”, uno straordinario libretto che raccoglie alcuni poeti cari a don Giussani. Stasera, ad esempio, ci sarebbe Santoro. Ma mi sa che io vado da Ada Negri (mia giovinezza: “non t’ho perduta…”).