Donne che desiderano un figlio ma che non riescono ad affrontare il cambiamento imposto dalla maternità. Madri che amano i loro bambini nel modo sbagliato, che si sentono sole e che cercano un aiuto fuori dalla famiglia. Ragazze che, di fronte a un corpo che si trasforma, rivogliono la vita di prima. Di queste donne si occupa il film di Alina Marazzi, Tutto parla di te, che ha voluto analizzare quel sentimento in bilico tra lamore e il rifiuto per il proprio bambino difficile da confessare e da risolvere. Unendo fiction, materiale darchivio, animazione e documentario, la regista racconta la storia di Pauline (Charlotte Rampling), nel cui passato si cela un drammatico segreto.
Tornata a Torino dopo molti anni, Pauline riprende i contatti con lamica Angela che ora dirige un centro per la maternità e comincia una ricerca sulle esperienze e sui problemi delle mamme di oggi. Attraverso le foto, i video e le testimonianze raccolte da Angela, Pauline scopre le difficoltà delle donne alle prese con un corpo che cambia, un neonato che piange senza sosta e uno stile di vita totalmente ribaltato. Tra le mamme che frequentano il centro, Pauline nota Emma (Elena Radonicich), una danzatrice bellissima e di talento alle prese con il conflitto tra il lavoro che ama e le nuove responsabilità che la maternità le richiede. Anche se dopo il parto riconquista il suo corpo, Emma sente di avere perso la sua identità e il suo equilibrio, anche nella danza.
Guardandola, Pauline comincia a scavare nel proprio passato, ricomponendo i pezzi di un puzzle che aveva rimosso. Ritrova una vecchia casa delle bambole, che nelle sue mani riprende vita e si trasforma nel set della vita felice di una famiglia degli anni Cinquanta. La tecnica dellanimazione permette di creare un piccolo film nel film, svolgendo la funzione della tecnica junghiana della sand play in cui il paziente sceglie tra gli oggetti in miniatura quelli più adatti a rappresentare la sua sofferenza, per arrivare a superarla. E mentre Pauline deve fare i conti con la propria tragica esperienza, Emma attraversa linferno causato dal senso di inadeguatezza e dal rifiuto della maternità, finché non scorge una via duscita: un giorno, guardando suo figlio, riesce finalmente a vederlo come una persona diversa, che ha bisogno del suo amore ma non risucchia la sua identità.
Nel film domina un senso di solitudine e di oppressione acuito dall’assenza di figure di riferimento maschile: dove sono i padri? Non sappiamo niente di loro, né le donne si lamentano della loro assenza, come se fosse scontata. D’altra parte, la regista vuole esplorare il rapporto esclusivo tra madre e figlio e il loro complicato legame emotivo, seguendo il viaggio di una donna che combatte in prima persona contro i fantasmi del passato.
Questa linea narrativa, tuttavia, è debole e non coinvolge mai fino in fondo, lasciando l’impressione di un’opera incompiuta, senza un vero collante tra le sequenze (nelle quali non mancano però dei momenti poetici). Alla fine non si danno risposte nette: si sollevano domande, anche scomode, sul motivo per cui tante donne vivono la maternità in modo distorto, arrivando a commettere degli atti impulsivi e inspiegabili. La paura di non essere una buona madre diventa più forte dell’amore, spingendo la donna nel baratro della depressione e rovesciando l’idea positiva comunemente associata alla maternità.
Alla regista va il merito di avere affrontato un tema attuale mostrandone le ombre, svelando che mettere al mondo un bambino non è sempre e soltanto fonte di gioia e di entusiasmo. Cammina su un terreno rischioso, è vero, e non si può negare che la visione del film sia angosciante. Eppure alla fine si intravede una luce, si esce dalla sala con la speranza che il negativo possa trasformarsi in positivo, come accade a Emma: sulle rive del lago, la donna riscopre l’amore per suo figlio e capisce che la maternità non ha annullato la sua personalità. Anzi, l’ha arricchita, spingendola a crescere e ad affrontare le sue insicurezze.