In una prima serata in cui, senza Roberto Benigni, lunico Dante sarebbe stato il difensore del Bayern vittorioso sulla Juventus, la Divina Commedia torna in tutta la sua struggente contemporaneità, nel consueto abito popolare con il quale lattore toscano lha vestita nelle serate di TuttoDante. Ieri sera la Rai ha proposto la replica della lettura di ben due canti dellInferno: il XVII e il XVIII. Listrione Benigni sale sul palco di piazza Santa Croce saltellando, ma non sta per leggere Pinocchio: pochi minuti dopo echeggerà sulla facciata della chiesa e dei palazzi il comando di Virgilio al mostruoso Gerione, allegoria dellinganno: Moviti, omai!. Benigni rimarca la gravità del peccato di frode, quale gesto infame compiuto con il bastone della ragione, che è la più alta forma di dignità, il valore divino che gli uomini hanno avuto in dono per riconoscere la grazia della fede.



Gli incontri di Dante con le anime dannate vengono narrati da Benigni con una partecipazione umana prima che attoriale: la figura laida di Reginaldo degli Scrovegni e il suo turpiloquio si fanno voce presente e sofferente. Benigni raccomanda unimmedesimazione, anche se faticosa: siamo nelle profondità dellInferno, ma il viaggio reale compiuto da Dante è un gesto di carità verso il lettore, perché è passando da qui che si arriva a Dio. Benigni da un lato ci affascina, dallaltro rischia di perdersi e perderci camminando sul filo di una compiaciuta sovrainterpretazione; ascoltandolo, capiamo che la sua operazione culturale nasconde il valore più interessante nelluso della lingua.



Benigni non legge la Commedia, la dice. La pronuncia con lo stesso afflato e linflessione toscana che Dante udiva dai suoi contemporanei, quando sedeva davanti a Santa Maria del Fiore, su quel muretto che ora è ricordato da una targa con su scritto Il sasso di Dante. Egli ci pare vivo, ma non perché Benigni possa beceramente, fiorentinamente reincarnarlo, ma perché a sopravvivere è la sacralità della parola. Quando Benigni, con un sorriso tutto toscano, si trova a spiegare il turpiloquio del XVIII canto, dove ruffiani, adulatori e seduttori sguazzano nello sterco, non esita a ricordarci che la misura anche dellendecasillabo dantesco più greve è la stessa del sublime E quindi uscimmo a riveder le stelle: il medesimo amore per lesattezza del verso, del dettato. O ancora quando, visibilmente commosso, lattore pronuncia con pudore le parole di Dante a Virgilio, che lo invita a salire sulla groppa di Gerione: Fa che tu mabbracce. Benigni restituisce allascoltatore la personale grazia di saper dire la Commedia, e non di leggerla o recitarla, di saperla dire con quella stessa lingua che, lo ricorda più volte, ha unito lItalia.



La Commedia lancia da settecento anni all’umanità la corda per salire la vetta dell’esistenza: è il poema totale del desiderio e questo è tanto vero che Benigni, in uno slancio di toscanità, ci dice che è lo stesso, identico desiderio di chi vede un amico tutto fremente, tutto teso a qualcosa e gli chiede: “Icche c’è? Icche ttu c’hai?”.

Se è vero che Dante parla al cuore dell’uomo, non ci può più stupire che Benigni riesca, a suo modo, con un fare popolare (e a tratti populistico) a ribadire la potenza allegorica della Commedia, che non sottostà allo sgretolamento del tempo, che trova i suoi riferimenti anche nel 2013, quando la frode, la menzogna, l’adulazione sono più striscianti che mai. L’attore lo ripete: le allegorie di Dante vanno colte in una diacronia, sono così vere e potenti che non siamo noi a stupirci – continua – di come vengono usate le parole, ma sono le parole stesse a stupirsi di dove e come sono state disposte.

Ma c’è qualcosa che è ancor più radicale: l’amore concreto “che move il sole e l’altre stelle”. Al di sopra di ogni similitudine o allegoria, è il Dio incarnato che muove la ragione al viaggio di Dante e di Ulisse. Probabilmente Benigni lo sa, ma è questo che gli concede la grazia di dire la Divina Commedia.