Zombie unchained. Ovvero il luciferino Robert Bartleh Cummings – in arte Rob Zombie – libero dai vincoli espressivi del mainstream, canta il suo peana alla cultura underground che poi è quella da cui viene e a cui tende. Le Streghe di Salem profuma di underground, anela allunderground e Mr. Z. sembra proprio aver voluto spezzare le catene che lo hanno frenato con i reboot di Halloween (2007-2009) verso espressività vintage e viscerali. The Lords of Salem però, a scanso di equivoci, non è un film undergorund, dato che Rob Zombie non è più da un pezzo un regista underground, benché in odore di controcultura. Videoclipparo e rocker nellanima, Zombie firma un pezzo poco didascalico con delle pretensioni artistiche, a tratti magari un po arty, ma inquadrate in un contesto di rappresentazione diverso dal solito e quindi capace di solleticare coloro che sono in cerca di esperienze insolite.
Il plot affonda le fondamenta nel processo alle streghe di Salem avvenuto 1692 nel New England, che vide allopera il noto acume degli ottusi alle prese con la gestione dellignoranza. Body count? 19 persone giustiziate, 55 torturate, 150 imprigionate e 200 processate. Questa la storia vera. Il film invece narra della rocker-dj Heidi (Shery Moon Zombie) che, lavorando per unemittente radiofonica, riceve un vinile speditole dai Lords. La donna, in compagnia dellamato Whitey (Jeff Daniel Phillips), manderà on air il disco che rapirà le menti delle ascoltatrici e farà avere a Heidi pessime visioni del passato. Da allora la donna inizierà ad avere flash sempre più intrusivi e sfiancanti. Whitey potrà fare poco contro il fato di Heidi che sembra essere stato segnato secoli fa.
In un tripudio di scenografia e colori, nella pochezza di scene di sangue e nellassenza di effetti speciali digitali, The Lords of Salem si aggira più che altro nei meandri mentali del regista che, a proprio modo tarantinato, rimanda molto alla cinematografia anni 60/80. Da Bava (ovviamente la sua Maschera del Demonio, 1960) a Polanski, presentissimo per tutto il film, fino a Russel, citato dallo stesso regista quando spiega questa sua ultima pellicola come uno Shining girato da Ken Russell.
Significa – così intendo – che come Jack Torrance realizzava il suo destino andando verso lOverlook Hotel (nel quale ha sempre paradossalmente vissuto, vedi foto finale) e nella stanza 217, così Heidi entra nella stanza numero 5 perché è lì che deve finire e realizzare un fato tanto antico quanto controvertibile. Il tutto però mostrato con quello spirito orgiastico, panico (da Pan) e psicologicamente malsano che aveva contraddistinto I Diavoli (1971) girato da Russell. Sta di fatto che Zombie, nella progressione narrativa, abbandona i binari didascalici per deragliare in un fervore visivo che si approssima, al procedere del minutaggio, a una programmatica perdita del senso a favore del sento, con ovvia stortura di naso di coloro che non apprezzano più di tanto larte per larte. Il pericolo del lost in translation cè eccome, ma il regista di Haverhill sembra essere interessato a un superamento dei significati letterali e oggettivi a favore dellemozione visiva che è soggettiva.
Le Streghe di Salem non è un capolavoro, ma piuttosto una lavata di capo a chi necessita di binari ben marcati per far marciare il senso e in esso l’arte, quando in effetti è tutto il contrario. È proprio quando l’arte si fa erratica e scomposta che essa mostra la propria natura intima, ovvero il fantastico e l’inconscio, mentre invece l’arte “compresa e comprensibile” è una fantasia mediata dal razionale e dal sociale. Il perturbante di Rob Zombie è proprio questo: un piatto di immagini e sensazioni servito allo spettatore in una combinazione tale che quest’ultimo ci debba mettere il suo condimento.
È questo di Zombie un approccio nuovo all’arte o al cinema horror? Ma va. Mi viene in mente uno Stan Brakhage che abbandona lo spettatore alle immagini mute di un’autopsia nel paradigmaticoThe Act of Seeing with One’s Own Eyes (1971), estremo tentativo di educare lo spettatore alla soggettività. Mi ricordo anche di un tale Dario Argento che realizzava con le immagini e con i colori dei quadri di inquietudine e malattia (mentale) senza che i dialoghi avessero poi troppo senso e importanza. Chissà che fine ha fatto quel tale? Comunque Mr. Z sta anche lui lì, nella fila dei registi artisti che hanno qualcosa da dire e lo sanno dire tramite un loro linguaggio; cosa che, in tempo di omogeneizzati pop, è un valore aggiunto e un piccolo tesoro che va difeso.
Qualche manierismo venga perdonato. Si perdonino anche alcune trovate sempliciotte in seno al satanismo e alla rappresentazione di esso. Si plachino pure le critiche nei confronti del nepotismo per il quale Shery Moon risulta essere musa onnipresente nelle opere del suo uomo; se c’è l’amore. Come di consueto poi non manca la dovuta rassegna on screen delle vecchie glorie del cinema horror, che ormai dovrebbe risultare come la prova provata che il regista conosce l’argomento horror e sa quello che sta facendo. Quindi ecco Dee Wallace (The House of the Devil, 2009), Patricia Quinn (The Rocky Horror Picture Show, 1975), Judy Geeson (Il cerchio di sangue, 1967), Meg Foster (Essi vivono, 1988), Ken Foree (Zombi, 1978) e Bruce Davison (Willard e i topi, 1971). Ci doveva essere pure Udo Kier, ma è stato tagliato in fase di montaggio.
Seppure il coinvolgimento emotivo dello spettatore possa subire arresti dettati dallo sforzo di penetrare il senso delle immagini (invece che farsi trasportare!), il linguaggio di Mr. Z è meno disordinato di quanto molti abbiano indicato. In effetti, la sua è una vera e propria metamorfosi di linguaggio filmico che passa da situazioni di rodata ortodossia commerciale (si veda la prima scena: persona che dorme, sveglia che suona, stacco sul cane, ritorno alla protagonista che si desta… Tutto molto cinema ‘80) per poi passare a modelli classici ma non troppo commerciali (Polanski e qualche tocco di J-horror), fino a forme di espressione puramente suggestiva, visiva, simbolica.
Centrale la figura della femmina nelle sue differenti età e nelle sue differenti fisicità. Rob Zombie non sembra voler moralizzare il discorso stregonesco ricamando sul ruolo della strega poverella vittima della Chiesa, ma anzi dipinge un mondo femminile lunare ed esoterico senza di fatto la presenza di una donna angelicata o idealizzata; le donne di Mr. Z., tutte un po’ hippies da setta anni Settanta, sembrano figlie di Lilith. Anche la bella protagonista non è certo la verginale e intonsa final-girl di tanto cinema horror americano. Solo alla fine del film sarà presentata un’immagine Mariana ma di netto gusto blasfemo. Assolutamente apprezzabile e ben calibrata la scelta dei nudi femminili nel sabba e altrove, reali al punto della sgradevolezza (quanto siamo diseducati dai criteri estetici!), con un recupero dell’iconografia delle antiche litografie sull’argomento.
La valenza weird de Le Streghe di Salem è indubbia, ma in fondo non è poi neppure così marcata, ad avere esperienza di un certo cinema underground passato e presente. L’espressività di Rob Zombie in definitiva rompe schemi fragili per natura, ovvero quelli costruiti dal cinema commerciale e lo fa senza pestare poi troppo sul pedale dell’incomprensibilità: tutto rimane accettabile, il blasfemo rimane coerente in un film sul satanico. Piuttosto sono gli altri a essere stati negli ultimi anni poco coraggiosi. Sempre che Mr. Z sia stato poi davvero così coraggioso e controcorrente. Ma, diavolaccio, almeno ha una visione personale delle cose!