Ho ripensato, rivedendo in televisione solo episodicamente TuttoDante, la replica delle memorabili recite serali, ammirate anni fa in piazza Santa Croce a Firenze, al mio ormai lungo rapporto con Roberto Benigni. Una serie di icone, culminanti nella giornata della laurea honoris causa nellaula magna dellAlma Mater studiorum, quando egli stupì tutti recitando lultimo canto del poema in un registro pacato e domestico: dove il Vergine madre, figlia del tuo figlio era la semplice, quasi dimessa preghiera a una mamma, lontanissima dai registri vertiginosi di un Vittorio Gassman.
Ricordo poi una sua straordinaria esibizione, al Palazzo dello Sport di Bologna, quando un amico comune mi introdusse nel suo camerino, alla fine dello spettacolo, e io, ancora emozionato per quella esperienza, gli dissi che il suo vero dono era quello di rendere il testo di Dante come lavrebbe eseguito un contemporaneo, senza sovrapposizioni o deformazioni culturali: insomma, respirandone laura originaria con la naturalezza degli esegeti trecenteschi, in ciò favorito dalla sua pronuncia moderatamente toscana, senza concessioni al ribobolo (forse non lontana da quella dello stesso Dante).
Aggiunsi tuttavia che, in assenza di autografo e di punteggiatura dautore, il lettore moderno poteva essere tentato di aderire agli insegnamenti di Stanislavskij, con quella geniale distinzione fra pause logiche e pause psicologiche; e gli proposi anche un esempio, tratto dal canto di Ugolino (con la possibilità di leggere: però quel che non puoi avere inteso, / ciò è come la morte mia fu cruda: / udirai, e saprai se mha offeso); ma con piena coerenza lui mi rispose che era solo una bella trovata di vecchio dantista.
Ho visto in televisione ieri sera lultima puntata prevista, dedicata ai due atti della commedia dei Malebranche, canti XXI e XXII dellInferno. Dopo le efficaci battute introduttive, dedicate alla natura della baratteria, alla deflagrazione dello stile comico e a una tecnica cinematografica senza precedenti, ho apprezzato ancora una volta la sua capacità riassuntiva accanto allessenzialità dellesegesi, ma insieme le parche concessioni allattualizzazione di certi temi. Così, il fermo rifiuto dellusura di contro allesaltazione del lavoro, strumento etico per la realizzazione della propria umanità; oppure la condanna dei politici disonesti, che lascia sospettare nei barattieri di allora limpiego di tangenti e bustarelle, tutto in nero, come purtroppo avviene al giorno doggi; o ancora il richiamo a certe pagine di Primo Levi, nellinferno di Auschwitz, per i diavoli aguzzini della quinta bolgia.
Alcune linee-guida di Benigni commentatore vanno ravvisate in primo luogo, oltre che nella sua mimica coinvolgente, nella convinzione che Dante non lasci mai niente al caso, autorizzando il suo lettore a operare deduzioni logiche anche ardite; poi anche nell’abitudine a certa sapida aneddotica storica (così per Bonturo Dati e per Ciampòlo di Navarra); o a essenziali annotazioni linguistiche, volte spesso a sottolineare la ricchezza dei neologismi o, più spesso, degli allotropi (ad esempio, la coppia pece–pegola). Ma ancor più mi ha colpito quel suo coraggio di commentare quasi sintagma per sintagma, traducendo Dante con parole nuove, a volte, per maggior chiarezza, smontando il verso, in un costante intramezzare la chiosa alla lettura dell’originale, proprio come usavano fare i commentatori antichi.
Da ultimo, si apprezza come merita, proprio perché si sviluppa su questo fervido crogiuolo preparatorio, la recita finale del canto per intero, senza interruzioni: un’esecuzione perfetta, senza sbavature, davvero il più bel coronamento di questa umile glossa totalizzante, aperta proprio a ogni genere di pubblico.