Dati non proprio confortanti, quelli emersi dalle elezioni amministrative che hanno interessato centinaia di comuni italiani. Nell’eterno dilemma post-Gaber tra destra e sinistra tra le quali si è frapposto il parvenu MoVimento 5 Stelle il vero protagonista e vincitore delle votazioni di domenica 26 maggio è stato l’astensionismo. A Roma, quasi la metà dei cittadini ha preferito non recarsi alle urne per scegliere il nuovo sindaco, e, nel complesso, in Italia ha votato il 62,38% rispetto al 78,84 delle precedenti amministrative, escludendo dai giochi almeno per il momento Beppe Grillo, che appena tre mesi fa era stato saluto come pater patriae, decretando una tiepida vittoria, in cinque capoluoghi, del centrosinistra, e rimandando tutti gli altri al ballottaggio. Un sintomo preoccupante, l’alto tasso di disertori delle schede, la cui causa è da ricercarsi nello stesso luogo in cui si dovrà ora cercare la soluzione: la comunicazione di massa, come dice Mario Morcellini, professore di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi a La Sapienza di Roma. Ma in che modo hanno influito i media sulla scelta della non-scelta? E, soprattutto, in che modo potrebbero aiutare a rimettere insieme i cocci di un’Italia che non si sente più riconosciuta dalla politica tradizionale? 



Oltre il 50% degli aventi diritto al voto ha disertato le urne: una percentuale altissima.
In realtà non fa meraviglia il tasso di astensionismo, bensì il contrario: il fatto, cioè, che un Paese sgovernato come l’Italia ci siano ancora più del 50% di persone che vanno a votare e che ancora credono, con pur qualche riserva, nel meccanismo tradizionale della rappresentanza, nonostante gli schiaffi ricevuti.



Web, tv, talk show, giornali: negli ultimi mesi siamo stati bombardati dall’immagine della politica che i media ci restituiscono. Pensa che tutto questo abbia influito sul crescere dell’astensionismo?
La comunicazione dovrebbe recitare un gigantesco mea culpa per come, non solo nell’ultimo periodo, ma in questi anni, o addirittura decenni, ha raccontato la politica, con un dibattito, alimentato principalmente attraverso la televisione, il cui unico fine è quello di alzare i decibel della confusione, con conseguenze devastanti. 

Che tipo di confusione?
In tv i diverbi politici sono allestiti come si organizzerebbe il tifo di una partita di calcio: e come allo stadio, durante le trasmissioni, scoppia immancabilmente la bagarre dell’estremismo delle curve. Lo spettatore è così spinto a non prendere più sul serio la classe dirigente, e si lascia ampio spazio all’antipolitica di fare proseliti che iniziano a ritenere perdenti le risposte tradizionali della politica.



Quindi, come ci diceva la nonna, è tutta colpa della televisione?
Da un lato sì, ma dall’altro la responsabilità ricade anche su tutti quei politici assetati del famoso quarto d’ora di notorietà sul piccolo schermo, sottoponendosi alle logiche del pettegolezzo, secondo le quali si vota a seconda della vita privata dei candidati e non per le loro azioni e le loro scelte strategiche.

Che soluzione si potrebbe trovare?
necessario innanzitutto che venga radicalmente riformato, dal punto di vista comunicativo, il racconto televisivo della politica: ci servono partiti che dicono quello che ha fatto, con numeri e fatti, cosa impossibile in tv, dal momento che non ama cifre e percentuali ed è necessario che i politici la smettano di essere succubi della logica dello spettacolarismo

Nella pratica?

Ci vorrebbe una prima norma di salvaguardia: far fuori dai palcoscenici tutti i politici che fanno i “divi” e che, hanno fatto diventare la politica un genere televisivo.

 

La vedo dura, dato l’alto tasso di narcisismo in Italia dove (non dimentichiamo) tutto gira grazie alla gran macchina del gossip. Soluzione di riserva?
Era il secondo punto che volevo evidenziare: c’è bisogno di interattività. Nel nostro Paese non ci sono forze politiche che usano (e sanno usare) il web come mezzo di comunicazione efficace, e invece dovrebbero imparare a dialogare con il popolo della rete.

 

Beppe Grillo lo fa.
No. Perché Grillo – e paga caro il prezzo di questo – usa il web come se fosse la televisione, senza attuare quello scambio biunivoco di opinioni, ma sfociando in un infinito monologo.

 

I partiti dovrebbero quindi imparare ad ascoltare.
Esatto: è difficile, certo, e il web è pieno di voci isolate pronte a insultare, ma aver la forza di poter ascoltare quello che la gente ha da dire è l’unico modo per evitare che la scissione tra i giovani – maggiori fruitori di Internet – e politica diventi irreparabile. 

 

Bisogna tentare di risanare il divorzio con i giovani attraverso il medium da loro prediletto.
Già: perché anche in America un cittadino su due non va a votare, ma l’astensionismo è distribuito in modo uniforme tra le generazioni, mentre in Italia sono soprattutto i giovani a non andate a votare, ed è pericolosissimo quando un intero blocco della società si scinde dalla democrazia, nella quale non ha più fiducia.