Il teatro politico forse finisce per sempre con la scomparsa di una sua grande protagonista, Franca Rame. Un teatro, come dice il regista Franco Palmieri in questa intervista, che con i suoi limiti ideologici ha segnato lo scardinamento di una concezione elitaria del teatro stesso riportandolo in mezzo alla gente. Esattamente come fece Testori, ci dice, che però partiva da una rivoluzione differente: “Ha avuto l’ardire di rimettere sul palco la domanda ultima sul destino e il mistero, per questo paga ancora oggi una censura che invece Fo e Franca Rame non hanno avuto”. Davanti alla morte di Franca Rame rimane però una domanda, dice Palmieri: “Siamo davanti a un biennio in cui stanno scomparendo uno dietro l’altro i maestri. Questa è una domanda enorme al mondo culturale e teatrale, la domanda su dove e con chi ricominciare a fare teatro”.

Franca Rame si identifica ancora oggi con il teatro politico, militante degli anni 70: è d’accordo?
Senz’altro ha contribuito a portare nel nostro paese una nozione di teatro di impegno sociale e a declinare questa forma un po’ lontana da quello che era il vivere negli anni 70. Proprio in quel periodo il teatro viene a innestarsi con la vicenda del quotidiano e questo succede grazie al teatro di Dario Fo.

Nel dettaglio, cosa ha significato il teatro di Dario Fo e Franca Rame?
Un contributo oggettivo che questa coppia, lei in particolare hanno dato al nostro paese. Da quegli anni ha preso forma il teatro di impegno e di denuncia con anche tutti i suoi limiti evidenti. Però di fatto è stata una innovazione. Che poi sia stata usata in modo limitato solo riguardo a certi temi questo è un altro discorso. Allora la rivoluzione passava attraverso lo strumento del teatro. Grazie a loro, il teatro esce da una pratica borghese salottiera e ristretta e diventa un fenomeno popolare.

Un tipo di teatro però legato a un preciso periodo storico, a una ideologia che in gran parte ha fatto il suo tempo.
Diciamo che è un teatro che nasce e muore e si consuma molto in fretta anche perché ha una fruizione diretta. Non affronta cioè temi eterni, affronta temi contingenti. Finita quella emergenza questa nozione di teatro svanisce o si riduce. Il che pone la domanda del ruolo della politica in un’opera artistica. Il teatro di per se è una opera sociale di ricostituzione di una consapevolezza popolare. In quegli anni che anche io ho vissuto anche se le mie strade sono state diverse, questa azione aveva una componente sociale. Il teatro dunque cavalca un’onda di un impegno politico che tutta la società stava vivendo. Dario Fo e Franca Rame in qualche modo danno voce a una esigenza che c’era a tutti i livelli. Il teatro diventa sociale e politico perché la società ha in quel periodo questa urgenza, lontanissima da quella di oggi.

Viene in mente un loro contemporaneo, che lei conosce benissimo, Giovanni Testori, che però intraprende un cammino teatrale diverso.
Testori supera il fatto politico però userei per entrambi i tipi di teatro la parola rivoluzionario. Di fatto Testori è un rivoluzionario, avanti rispetto alla percezione corrente tanto che non era popolare da vivo e non lo è neanche da morto. Però anche lui incarna una esigenza di cambiamento di cui il teatro è strumento.

In che modo incarnava questa esigenza?

A Testori non è mai interessato il successo, o l’abbonamento e le convenzioni teatrali. Ha sempre cercato una forma popolare estremamente povera e quindi rivoluzionaria. In questo senso ci possono essere dei binari che fanno assomigliare il teatro politico a quello di impegno umano e quindi religioso di Testori. 

Il fatto che come dice lei oggi Testori è censurato mentre non lo sono Fo e Franca Rame, può essere proprio perché il teatro di Testori era appunto religioso e non schierato politicamente in un’area di consenso come era il loro? 
Direi che la rivoluzione censurata di Testori sia il fatto che ha avuto il coraggio di mettere sul palco una domanda sul senso ultimo delle cose e sul destino e questo oggi è imperdonabile. Testori ha avuto un ardire di troppo. Non credo sia solo per una appartenenza politica, anche se in Italia si legge tutto con i colori della politica, ma è stato censurato perché ha rimesso sul palco il destino e il mistero. L’innocente spregiudicatezza come direbbe lui. Fo lavorando tenacemente su temi sociali comprensibili e difendibili ha avuto più facilità. Di conseguenza l’appartenenza politica è facilitante ma direi che la politica sia la conseguenza di una scelta e non viceversa. 

Due modi diversi di essere rivoluzionari. 
Non è un caso che anche Dario Fo e Franca Rame iniziano la loro vicenda nota con un testo preso dalla tradizione religiosa e cioè Mistero buffo. Il teatro come pratica borghese era finito, si parlava di una morte del teatro già all’inizio degli anni 70. Fo e Franca Rame incarnano questa istanza e la rendono aggregativa e sociale arrivando al Nobel. Franca Rame in particolare con una sua testardaggine ha incarnato certi temi come il femminismo o la libertà sessuale che allora erano temi molto caldi. Testori ci ha sempre detto che il teatro deve dire quello che si vive. Sentire la storia della Locandiera di Goldoni può essere interessante ma desueto rispetto a una urgenza di cambiamento. 

Un’ultima domanda su Franca Rame come attrice: lei era famosa per i monologhi teatrali. 
Aveva la forza che oggi hanno alcuni cito senza fare paragoni Marco Paolini. La capacità di raccontare, di essere attore con la parola e basta. E’ una identità che genera la nostra tradizione, quella della piazza, della strada, del teatro medievale quando l’attore portava la parola di un altro e intorno alla parola aggregava la gente. Franca Rame era capace di questo, una attrice innovativa non certo paragonabile a Valeria Morricone o Mariangela Melato come interprete però ha avuto una funzione in mezzo tra la parola e la platea. Lei rappresentava la parola. 

(Paolo Vites)