Se siete tra quegli spettatori che amano cascate di proiettili e crimine organizzato, Il cecchino è il film che fa per voi. Con due dovute precisazioni, però. La prima, pochissimi proiettili cadono sprecati nel vuoto. Il cecchino, cioè, sa fare bene il suo mestiere. La seconda, la regia è di Michele Placido, quindi forse il film tanto male non è. Non ci si aspetti, però, una storia profonda e approfondita. Questo sì, dispiace. Perché Placido è bravo negli intrecci criminali. Le vicende qui sono per lo più connesse a fatti di sangue. Azione che incontra, a tratti, un po’ di confusione quando diversi piani iniziano a sovrapporsi.
Partiamo dall’inizio, che è a Parigi. Dalla rapina in banca, cioè, che una banda cerca di portare a termine. Se non fosse per l’intervento della polizia, guidata da Mattei (Daniel Auteuil). Dall’alto, però, colpi netti e precisi mettono fuori gioco tutti i poliziotti. Merito del cecchino (Mathieu Kassovitz), che consente ai suo complici, il cui capo è Nico (Luca Argentero), di guadagnare tempo per la fuga.
Entra in gioco un ultimo personaggio. Quello di un medico (Olivier Gourmet), amico di uno della banda, cui viene chiesto aiuto per medicare Nico. Si innesca, così, una sorta di effetto domino in cui i soldi della rapina sono il focolaio che innesca gli eventi successivi. Scomparse, torture, omicidi, inseguimenti. Un intreccio di circostanze e dinamiche che a tratti, come si è detto, tendiamo a lasciare andare. Per farci rapire dalle azioni misurate e misteriose della mela marcia che complica la trama.
Se dobbiamo trovare un valore aggiunto alla storia, possiamo certamente dire che è questo. La possibilità, ovvero, di osservare il bene combattere il male e il male stesso sdoppiarsi in una zona d’ombra e una di luce. C’è anche un difetto, però. La bellezza – ci si consenta di usare questo termine – nascosta in quest’idea si assottiglia nel far vivere personaggi decisamente poco approfonditi. Sono tanti gli input che Placido dissemina nella storia. Soprattutto segnali di una certa finezza psicologica. Ombre che hanno reso questi uomini quello che sono. Non per forza giustificazioni, ma piccole finestre su di un passato che resta aperto nel presente.
Che poi, alla fine, è proprio questa la meraviglia del cinema. Concedere a dei personaggi di vivere per due ore un presente intriso di un passato avvolgente. Per cui ogni gesto o parola – come poi è anche nella vita reale – trova significato in quello che si è stati. Di tutto questo ne Il cecchino si intravvede uno spiraglio. Deboli tentativi che solo un occhio esperto, crediamo, può cogliere.
È un peccato, perché riusciamo ad assaporare il senso di molti gesti solo parzialmente. Anche quando per il comandante Mattei piano lavorativo si confonde con quello privato, la suspense è piuttosto blanda. La sensazione che Placido avrebbe potuto dare di più è forte. Perché non è detto – ma questo lui lo sa bene – che un film di proiettili debba essere per forza solo azione superficiale.
Abbiamo provato a dare una giustificazione alla debolezza del film. Forse, essendo una coproduzione con la Francia, si è voluto dare un respiro maggiormente internazionale, sacrificando un po’ di storia a favore dell’azione. O forse, più semplicemente, i due sceneggiatori – francesi – sono più… leggeri.
L’amaro in bocca, però, resta. Perché dopo l’ora e mezza passata con il nostro protagonista, che proprio un santo non è, siamo decisamente dalla sua parte e ci sarebbe piaciuto vedere e sapere di più su di lui. Che, certo, apre e chiude il film, ma non basta. Insomma, avremmo voluto poter dire “che bel film”, mentre invece dobbiamo limitarci al “non è male”.