Si può avere una crisi di mezza età a nove anni? Nell’era digitale sì, se sei una grande realtà del web costretta a innovare continuamente. Nove anni per Internet sono già una generazione, e il rischio di venire superati da qualcuno che è più nuovo e “cool” è sempre in agguato. Negli Usa c’è chi comincia a sospettare che stia iniziando la crisi di Facebook. Il social network più popolare del mondo è ormai così familiare nella vita di tutti da far pensare che esista da quando c’è la Rete. Invece è nato solo nel 2004 e in questo breve arco di tempo è riuscito a coinvolgere una larga fetta della popolazione planetaria: 1,1 miliardi di persone, secondo gli ultimi dati disponibili. Eppure sono bastati un rallentamento (fisiologico) nella crescita degli utenti negli Usa e in Gran Bretagna e le delusioni per l’andamento del titolo in Borsa, per far cominciare a circolare la voce che Facebook è destinato a seguire la sorte di Second Life o MySpace. Cioè di grandi successi “social” già passati dalle prime pagine agli archivi dei giornali. Non ha certo aiutato, inoltre, il coinvolgimento di Facebook nella vicenda del cosiddetto “Datagate”, le rivelazioni dell’esperto di informatica Edward Snowden sulla raccolta dei dati personali sul web da parte del governo americano in chiave anti-terrorismo.

Mark Zuckerberg, il fondatore del social network, è dovuto intervenire in prima persona per cercare di rassicurare gli utenti sulla loro privacy in Rete, negando di aver mai dato accesso diretto alla NSA alle informazioni disponibili su Facebook. L’allarme sul destino della società californiana di Menlo Park non è necessariamente falso, ma senza dubbio non è sostenuto da dati di fatto credibili. Le ultime rilevazioni di Nielsen Media Research ci dicono che su Facebook si continua a trascorrere molto più tempo che su qualsiasi altra entità social targata Google, Microsoft o Yahoo. Circa il 60% di quel miliardo e rotti di utenti di Facebook, nei primi tre mesi del 2013 ha visitato il sito ogni giorno, con un incremento dell’1,6% sul trimestre precedente. Il 66% delle aziende americane, secondo “Forbes”, ha progetti che riguardano Facebook. E gli utenti in calo negli Usa – dove il mercato è più o meno saturo – sono compensati dalla crescita in altre parti del mondo che ancora offrono ampi margini di sviluppo ai colossi del web. “Ci sono studi Usa che parlano di segni di disaffezione dei giovani nei confronti di Facebook, ma in realtà è solo diminuito un po’ il tempo trascorso sul social network: niente di sorprendente”, dice Luca Conti, uno dei massimi esperti italiani del settore, autore del blog “Pandemia” e di libri come “Fare business con Facebook” (Hoepli).

“La rete evolve, ci sono nuovi protagonisti – spiega – ma Facebook ha due vantaggi che ne assicurano il successo ancora a lungo. Il primo è la rete di rapporti che ciascuno di noi ha già costruito sul loro social: non è semplice convincere amici e conoscenti a seguirti altrove. L’altro è l’enorme archivio di contenuti, di pezzi della nostra vita, depositato su Facebook. In teoria, io posso scaricare tutto dal web e trasferirmi su un’altra piattaforma, ma perdo i link, i commenti, le interazioni: in sostanza, i rapporti e le esperienze che ho condiviso con chi mi segue. Più persone hai già nella tua rete di rapporti su Facebook, più sei legato e poco invogliato a cambiare”. Non è però, secondo Conti, solo una questione di vincoli. Facebook ancora funziona molto bene come modello e le alternative come G+ di Google, pur offrendo sempre più contenuti, non sono ancora altrettanto convincenti. Anche le preoccupazioni del mondo finanziario sul modello di business della società di Zuckerberg non tengono conto delle opportunità di crescita ancora disponibili. “La sfida per Facebook – dice Conti – è ora quella di monetizzare i contenuti degli utenti che vivono nei Paesi del nuovo sviluppo. Il Brasile per esempio, dove Facebook cresce e la sua monetizzazione è ancora da esplorare”.

 

Allarmi prematuri, quindi, ma con una postilla importante. Resta in ogni caso quella che si potrebbe definire la “sindrome del garage nella Silicon Valley”. Il mondo digitale è ancora un’industria di pionieri: un giovane brillante ancora sconosciuto potrebbe essere al lavoro, in queste ore, per lanciare dal garage di casa la nuova start up destinata a sconvolgere di nuovo tutto. È successo con Steve Jobs e la Apple, con Sergey Brin e Larry Page quando nacque Google, con Jack Dorsey e il suo Twitter, e con lo stesso Zuckerberg agli inizi (anche se il suo “garage” era in realtà una stanza nel campus di Harvard). Gli analisti e gli addetti ai lavori scrutano per questo ogni novità che sembra infiammarsi d’improvviso, per capire se sia “the next big thing”, la nuova svolta in arrivo. A colpire l’immaginazione in queste settimane, per esempio, è “Snapchat”, una app gratuita creata da due ex studenti di Stanford, Evan Spiegel e Bobby Murphy, le cui età sommate insieme non arrivano a 45 anni. È un sistema di instant-messaging, simile al popolare “Whatsapp”, che permette di inviare foto o brevi video che sopravvivono solo 10 secondi (o meno, dipende dalle scelte dell’utente), per poi svanire per sempre. Gli studenti americani lo usano per scambiarsi immagini spesso imbarazzanti, smorfie, o anche scatti a sfondo sessuale, con la garanzia che tanto poi si “autodistruggono” e non ne resterà traccia. Nella sede di Snapchat, una “beach house” affacciata sulla popolare spiaggia californiana di Venice e dominata dal logo dell’azienda – un fantasmino che ricorda quelli del vecchio Pac-Man – i computer girano a pieno ritmo. A febbraio gli utenti condividevano 60 milioni di “snaps” al giorno, adesso sono già saliti a 150 milioni. Per fare un paragone: Instagram, la app per le foto che Facebook ha acquistato per un miliardo di dollari nel 2012, produce 40 milioni di foto al giorno. Un confronto che ha già spinto “Usa Today” a formulare la solita domanda: e se Snapchat fosse “the next big thing”? Lo deciderà la Rete negli anni a venire. Parafrasando un celebre film: “È il web bellezza, e non ci puoi fare niente”.