Secondo Loris D’Ambrosio, consulente giudiziario del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, i segreti che si nascondono dietro le stragi che hanno insanguinato l’Italia, sono terribili. Con questa affermazione, Michele Santoro ha aperto la puntata di Servizio Pubblico Più, andata in onda ieri sera, giovedì 6 giugno, su La7. Come venne affrontata la lotta contro la mafia durante la prima e la seconda repubblica? Chi furono quegli uomini che ebbero il coraggio di guardare in faccia il nemico e di combatterlo con le armi della democrazia? I nomi che si possono fare sono sempre pochi, dato che la schiera di tutti coloro che fecero finta di niente, e che ancora giocano questa parte, sembra essere sempre estremamente folta. Il giudice Borsellino visse con coraggio la sua opposizione, ma venne fatto saltare in aria con il tritolo, lui e tutta la sua scorta. Norberto Bobbio, in una delle sue sottili analisi storiche e politiche arrivò a formulare una domanda cruciale: siamo sicuri che su tutte le nostre regioni sventoli il tricolore? La risposta che si può fornire è complessa. Una cosa è certa: se la politica con i suoi esponenti, principiando da Craxi per giungere ai nostri giorni, sarebbe stata ben differente senza l’apporto di una regione come la Sicilia lasciata in mano al potere della malavita organizzata. Il fenomeno Lega, avrebbe avuto altri connotati. Con questo, Michele Santoro, non vuole accusare nessuno, senza prove certe, di collusione con il potere mafioso, ma che la presenza sul territorio nazionale di una fitta rete di affiliati, condiziona sempre lo sviluppo della democrazia, intralciando la libertà della politica con interessi occulti. Il monito che viene lanciato, è di saper vedere prima di giudicare. Il servizio montato dopo il cappello introduttivo del conduttore, ha intrecciato un lungo racconto sulla situazione attuale della lotta alla mafia. La storia ha inizio nel quartiere Brancaccio di Palermo, quartiere sotto il controllo assoluto della famiglia Graviano. Le testimonianze dipingono una situazione sconcertante, ma ormai consolidata nella memoria storica della criminalità organizzata. L’intreccio di interessi è intricato e tutto sembra gravitare attorno a un bar dove i camerieri servono gli avventori con micro auricolari. Secondo quanto scoperto dagli inquirenti, in quel locale avviene lo smistamento di tutte le scommesse clandestine giocate non solo nel quartiere, ma nella città intera. Il resto è cronaca conosciuta. Cronaca fatta di omicidi, guerra per allargare il controllo sul territorio. Tentacoli di un potere che sembra arrivare allo stato. Un potere che, secondo alcuni, viene gestito dall’interno delle carceri malgrado il 41 bis. Nino Di Matteo, magistrato preposto alle indagini inerenti la presunta trattativa Stato-Mafia, un mattina, prima di recarsi al lavoro, riceve una busta dentro alla quale trova un Protocollo Fantasma. La sua preoccupazione è fondata e gli avvertimenti dei colleghi di evitare inutili esposizioni, non lo tolgono dal proposito di continuare lungo la strada che ha intrapreso per il bene della giustizia. Un groviglio, come quello che hanno in testa i capi. Lo stesso groviglio che ha condotto Bernardo Provenzano a tentare il suicidio all’interno del carcere di massima sicurezza di Parma. Chi è quest’uomo del quale le peripezie assurgono ormai a leggenda? Secondo le parole del giudice Di Matteo, Bernardo Provenzano è la mafia, l’uomo più pericoloso. Sempre sulla base delle indagini svolte, il giudice sostiene che la latitanza del boss venne protetta per evitare ulteriori inasprimenti nella guerra in corso. Le accuse sono gravi perché il quesito gravita attorno a chi avrebbe garantito la clandestinità di Provenzano, per quali ragioni e a quale prezzo. Lo scandalo, è che il lavoro di uomini determinati e coraggiosi come il maresciallo Saverio Masi, ha rischiato di venire vanificato attraverso depistaggi e disinformazioni. Tutto questo ha condotto, a parere di Michele Santoro, a un nuovo assetto nella piramide del potere mafioso. Chi ha osato parlare, come Massimo Ciancimino, è stato umanamente distrutto, sconfessato, dichiarato inattendibile. Eppure, ebbe il coraggio di raccontare come durante gli anni quando suo padre Vito fu sindaco di Palermo, alcuni uomini delle stato, cercarono di intavolare una trattativa con la malavita organizzata. Attraverso accordi blindati, le forze dell’ordine riuscirono a catturare il capo dei capi, Totò Riina e a decretarne la successione in Bernardo Provenzano. Ma si andò oltre. 



Al nuovo capo venne garantita una latitanza pressoché impossibile nella normalità, perché protetta. Durante i nove anni di clandestinità, il capo e il suo delfino Matteo Messina Denaro, ridisegnarono l’assetto del potere e degli interessi, situazione che ancora oggi perdura. Cosa si nasconde dietro il tentato suicidio di Bernardo Provenzano? Non è un caso che la messinscena di questo gesto disperato avvenga proprio mentre le indagini relative alla trattativa Stato-Mafia stanno conducendo alle prime istruttorie e il coinvolgimento della massima carica dello Stato è apparsa inevitabile? Chi è o chi sono, coloro che vengono strenuamente protetti? Dietro quanto accaduto nel carcere di Parma si cela una storia che affonda le sue radici fin nel secondo dopoguerra. Una storia che anche un boss della stoffa di Provenzano oggi, sembra non riuscire più a reggere. Ma è giunta l’ora della verità? Secondo le parole dette dal conduttore, la nazione intera ha il diritto di essere messa a conoscenza di quanto realmente accaduto.

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