Questa sera a Rimini è in scena lo spettacolo inaugurale del Meeting 2013, Le Confessioni di Agostino, con lattore Sandro Lombardi, a cura di Costantino Esposito, con la drammaturgia di Fabrizio Sinisi e la regia di Otello Cenci. Esposito e Sinisi, che sono anche gli autori di una nuova traduzione del testo dal latino, offrono ai nostri lettori una Introduzione sullesperienza esistenziale e letteraria di Agostino, seguita da un brano tra quelli che saranno letti durante lo spettacolo di oggi.
Se cè un assillo continuo, un basso ostinato che percorre per intero le Confessioni di Agostino, esso sta forse in questa scoperta: che essere vivi non è uno stato, ma un compito – un lavoro. Prima ancora di tutto, forse – paradossalmente – prima ancora di Dio, cè in Agostino questa percezione: che il desiderio di essere felice non sia unaggiunta intellettualistica o volontaristica allesistenza, ma una chiamata ad essere, che in quanto chiamata letteralmente implora una dimensione più piena dellio, una pienezza di sé che luomo da solo non può darsi e che tuttavia desidera più dogni altra cosa: il problema della felicità e il problema dellio, in Agostino – ancora lontano dalle scissioni moderne e contemporanee – sono inseparabili; coincidono. E questo fa coincidere a sua volta la questione di Dio con il problema della vita.
Se il peccato è prima di tutto un cattivo uso della vita e un tradimento del proprio desiderio, la felicità è questo appello dellessere a una pienezza di cui lorigine infinita è Dio. Dio come cuore della questione umana: lantropologia di Agostino parte in questa emergenza e si svolge in questa scoperta, nel dramma di un rapporto. dal non aver considerato tutto il peso di questo rapporto che è nato forse il grande equivoco – e la grande tentazione – che, da Petrarca a Giansenio, passando per Lutero, fa di Agostino lo scopritore dellinteriorità psicologica, di un ritorno al sé come fatto introspettivo: il dentro di Agostino è invece la scoperta clamorosa che, alla radice di sé, scoppia e fiorisce la presenza di un Altro. Lessere stesso, lio, si configura come rapporto.
Noi pensiamo abitualmente il trascendente come un al di là o un al di fuori di se stessi; per Agostino, invece, esso si mostra e si documenta innanzitutto nella trascendenza di sé che è la vita delluomo, non solo in termini di attesa e di bisogno, ma nei termini di una risposta, di un ritrovamento, di unesperienza. Nel proprio io luomo è più di sé; meglio: è se stesso perché è continuamente fatto; ed è fatto di inquietudine, il segno più eloquente della sua appartenenza.
Questa eloquenza di esperienza si rispecchia e si incarna nella particolare, strepitosa potenza letteraria di Agostino, come si può vedere soprattutto nel testo delle Confessioni (composte intorno allanno 400).
Quando, nel 384, si era trasferito a Milano, nella continua inquietudine che lentamente stava mutando linsoddisfazione in una conversione dello sguardo e del volere, fu attirato dallinsegnamento pubblico del Vescovo Ambrogio, spinto dalla curiosità di verificare se la sua eloquenza fosse davvero allaltezza della sua fama. E, come lui stesso racconta, allinizio apprezzava quella perizia retorica senza minimamente interessarsi a quello che Ambrogio diceva nella sua predicazione; ma poi proprio la forza di quel dire, a poco a poco gli fece passare nellattenzione e nella coscienza il contenuto espresso – tanto in Ambrogio le due cose era tornate a essere unite.
E alla fine lo stesso Agostino costituisce uno degli esempi più straordinari di come l’avversione alla vuota retorica, come ciò che impedisce di toccare la verità delle cose, porti infine a comprendere che questa verità è talmente densa di significato da portare in sé e con sé la sua bella forma. La bellezza, avrebbe detto poi Tommaso d’Aquino, recependo anche questo percorso agostiniano, è lo splendore del vero. Si provi a leggere, esemplificativamente, il brano dalle Confessioni che riportiamo qui di seguito, in una nuova traduzione italiana, curata da chi scrive, per saggiare e gustare questa eccezionale capacità di Agostino di servirsi della retorica con una creatività debordante e una destrezza tecnica che hanno dell’incredibile (e che forse leggendo il testo in latino risulterebbe ancora più evidente) come forma del vero.
Nel lavoro di traduzione abbiamo ritrovato sorprendentemente le matrici non solo della grande tradizione teologica, filosofica, e letteraria che dal Tardo antico arriva sino al Seicento, e che in Agostino aveva trovato sempre un punto di riferimento nel canone stilistico, ma anche di alcune delle esperienze poetiche e linguistiche più rilevanti del Novecento, da Thomas S. Eliot a Eugenio Montale, da Marcel Proust ad Arthur Rimbaud, da Giovanni Testori a Pier Paolo Pasolini, per citare solo alcuni dei nomi che ci sono venuti alla mente.
Quello di Agostino è un dire che nasce dal pianto. Giustamente il filosofo contemporaneo Jacques Derrida ha scritto che le Confessioni di Agostino sono «il grande libro delle lacrime»: attraverso di esse lo sguardo dell’io non si esaurisce nell’inquadrare e nel determinare il suo oggetto, ma nel farsene colpire, toccare, e nel giungere – finalmente – a vederlo non come qualcosa che si possiede nelle proprie prospettive geometriche, ma come libero dono e come grazia per sé. Queste lacrime liberano la visione perché la realtà si possa mostrare come segno di Dio. È questa visione del cuore il segreto della prosa poetica di Agostino.
La morte dell’amico (dal Libro IV delle Confessioni)
Nei primi anni del mio insegnamento nella mia città natale mi ero stretto ad un amico che la comunanza degli studi mi rendeva carissimo: mio coetaneo, come me nel fiore della giovinezza. Eravamo cresciuti insieme: insieme nella scuola, insieme nei giochi: di quell’amicizia che matura nella passione per gusti simili. L’avevo anche fatto deviare dalla vera fede, a dire il vero non molto sentita da lui nemmeno da ragazzino, facendogli strada in quei vaneggiamenti superstiziosi e distruttivi che facevano piangere mia madre. La sua mente era ormai tutta attratta dai miei errori, ed io non potevo più fare a meno di lui.
Ma Tu, o Dio, che incalzi chi ti fugge, che ci riconduci a Te per vie misteriose, ecco, lo strappasti da questa vita dopo solo un anno di un’amicizia dolce a me più di tutte le dolcezze della mia vita di quel tempo. Colpito da stati febbrili, egli rimase a lungo senza coscienza, in un sudore mortale. Perduta ormai ogni speranza, venne battezzato a sua insaputa. Io non me ne curai, nella certezza che il suo animo fosse più legato a quello che io gli avevo inculcato che non a quello che veniva fatto sul suo corpo incosciente. Ma le cose andarono assai diversamente. Si riebbe; parve fuori pericolo. Non appena io potei parlare con lui, tentai di prendere la questione del suo battesimo come uno scherzo, sicuro che egli avrebbe fatto altrettanto, avendolo ricevuto in stato di totale incoscienza.
Lui sapeva già di essere stato battezzato. E mi guardò con orrore, come si guarda un nemico. E con una franchezza strana e improvvisa mi avvertì di non parlargli più con quel tono, se volevo continuare ad essergli amico. Stupefatto, turbato, rimandai tutto quello che sentivo dentro di me al momento in cui, completamente guarito e nella pienezza delle forze, avrei potuto parlargli a modo mio. Ma lui fu strappato alla mia demenza per essere conservato alla mia consolazione presso di Te. Pochi giorni dopo, in mia assenza, venne colpito nuovamente dalla febbre, e morì.
Quel dolore mi ottenebrò il cuore; tutto quello su cui posavo lo sguardo era morte. Il mio paese diventò un supplizio, la casa paterna mi causava una terribile infelicità: ogni cosa che avevo condiviso con lui, senza di lui diventava un immenso tormento. I miei occhi lo cercavano ovunque senza trovarlo; tutto mi era diventato odioso, perché lui non c’era, e non mi potevo più dire: “Eccolo, viene!” come quando era assente, ma vivo. Ero diventato un immenso problema a me stesso: domandavo all’anima mia perché fosse così triste, perché mi facesse tanto male, ma essa non sapeva cosa rispondermi. E se le dicevo: “Spera nel Signore”, essa non mi ubbidiva, e ben a ragione, perché l’amico carissimo che le era stato tolto era più reale e più buono del fantasma in cui io le imponevo di sperare. Soltanto il pianto mi era dolce, e aveva preso il posto dell’amico nelle gioie dell’animo. Com’è che dalle amarezze della vita cogliamo sempre il pianto come un frutto dolce? Che dolcezza sta mai nella speranza di essere ascoltati da Te? In me era nato un sentimento contraddittorio: un insopportabile fastidio della vita, e, insieme, una paura di morire. Quanto più amavo il mio amico, tanto più odiavo e temevo come un crudele nemico la morte che me lo aveva strappato, e mi sembrava che essa dovesse portarsi via di colpo tutti quanti gli uomini, visto che aveva potuto portarsi via lui.
Mi stupivo che gli altri vivessero, mentre era morto colui che io avevo amato come se non dovesse mai morire, e ancor più mi stupivo di continuare a vivere, io, con lui morto: io che ero un altro lui stesso. Disse bene chi definì il suo amico “metà dell’anima mia”. Anch’io ho provato che la mia anima e la sua formavano un’anima sola in due corpi: e avevo orrore della vita, perché non volevo vivere a metà. E forse avevo paura di morire proprio per non far morire del tutto colui che avevo amato così tanto.
Ribollivo, sospiravo, piangevo, mi conturbavo sfrenatamente, senza ritegno. Mi trascinavo appresso un’anima spezzata e sanguinante, e non trovavo dove darle riposo.
A Te, Signore, avrebbe dovuto sollevarsi, da Te doveva essere guarita; lo sapevo, ma me ne mancavano forza e volontà, tanto più che, come allora riuscivo a immaginarti, non eri per me un essere ben definito e stabile, ma solo un nebuloso fantasma: non Tu, ma il mio errore era il mio dio. Perciò se tentavo di darmi riposo in quel pensiero, mi smarrivo nel vuoto, ripiombavo di nuovo su me stesso: costituivo per me stesso una terra desolata, dove non potevo stare, ma da cui non potevo fuggire. Avrebbe potuto forse il mio cuore evadere da se stesso? Dove fuggire da me stesso? Dove il mio io non mi avrebbe seguito?