Quando tutto è finito arriva il momento di ricominciare. Si presenta così, con uno slogan pubblicitario interessante e tutto suo, il film – commedia rosa, dice il regista Dante Ariola – Il mondo di Arthur Newman. Un prodotto filmico che, però, più che sorridenti lascia perplessi e che, forse, non racconta proprio di un amore sognante, di quelli che piacciono tanto alle ragazze, ma di una (non) affezione a sé un poco triste. Forse lerrore più grande sta proprio nelletichettare sempre e comunque qualsiasi cosa, anche in ambito cinematografico.
Perché, diciamocelo, Il mondo di Arthur Newman è un film speciale, sotto il punto di vista tecnico e artistico è certamente raffinato e molto ben fatto. Ma non lo si può, senza ombra di dubbio, definire comico o romantico. Il mondo di Arthur Newman non è una commedia rosa, ma, piuttosto, un dramma che racconta della vita di un uomo che non si piace, si crede fallito e finge di essere morto. Questo solo lincipit della vita, la prima e vera, di lui: Wallace Avery (Colin Firth), che decide, un giorno, di simulare una sparizione. La sua.
Un tramonto sulla spiaggia e poi chissà. Di lui, quelluomo con un divorzio alle spalle e un figlio che nemmeno gli parla, non si sa più nulla. Documenti nuovi, vita nuova. Dal mattino seguente Wallace non è più Wallace, e il suo passato – in teoria – non esiste più. Ora si chiama Arthur, Newman per lappunto – anche giocando sulla traduzione letterale uomo-nuovo – e il futuro è pronto a essere vissuto.
Ma il Destino non è tanto malleabile quanto spesso si crede. E così ricominciare, ripartire daccapo lasciando alle spalle tutto quello che è stato, risulta molto più complesso di quanto, invece, si sarebbe voluto. E, come in ogni storia damore (o presunta tale) che si rispetti, anche qui cè una lei e si chiama Michaela Fitzgerald, oppure Mike, o Charlotte. Interpretata dalla bellissima Emily Blunt, molto diversa dalla rossa modaiola de Il diavolo veste Prada, è schizofrenica, depressa e dipendente dallalcool. Dai capelli nero corvino, corti e spettinati, si lascerà salvare da un pericoloso post-sbronza dal serio Arthur, che lei facilmente smaschera in un paio dore.
Tu nascondi i soldi in una sacca sportiva che tieni nel baule, gli dice. E ti chiami Wallace, sorride. Proprio da questo incontro, dunque, le doppie personalità di entrambi andranno a unirsi e a convivere, forse capendosi in un mondo che difficilmente risulta comprensibile – e apprezzabile soprattutto – dallesterno.
Un film sicuramente molto ben fatto, e davvero interessante. Ma, nel complesso, una sceneggiatura non banale ma triste, che rischia di rovinare lintero prodotto. Perché anche lo svolgimento non è dei migliori. La nuova coppia di amanti inizia a pedinare tutti i fidanzatini che incontra strada facendo, introducendosi di nascosto nelle loro case, nei loro abiti prima e nei loro letti poi, fingendo, per qualche ora, di essere qualcuno che non si è affatto. Ma anche il passato non lo si cancella. Lui lascia a casa una famiglia, che non lo aspetta ma lo ricorda. Un figlio che solo a partire dalla sparizione del padre inizierà a comprendere che forse, a quelluomo che aveva bisogno di aiuto anziché di silenzio, si poteva anche voler bene.
Lei, invece, abbandona in ospedale la gemella ricoverata per schizofrenia. Che però ha bisogno di affetto più di quanto si possa immaginare, perché talvolta i medicinali non bastano affatto. Poco prima dei titoli di coda, un finale quasi capace di rendere apprezzabile l’intero copione. Proprio grazie a questo (non) amore che si instaura tra i due, infatti, mediante questo affetto che caratterizza le loro giornate fuori da ogni buon senso, e solo dedite al divertimento senza ragione, Arthur e la sua amante capiscono quanto sia importante e vero stare alla realtà delle cose. Iniziando col chiamare “ogni cosa con il loro vero nome” – come dice anche il giovane Chris McCandless, ispiratore del film Into the wild – e proseguendo col concepire l’importanza di quello che è stato per vivere quello che sarà.
Così tutte le strade portano a casa. Wallace torna dal figlio, per riscoprire un rapporto che chissà come prosegue, ma che tutti si augurano possa rifiorire, perché ogni figlio ha bisogno di un padre. E Michaela torna dalla sorella, perché “dare è più che ricevere” e la famiglia, dopotutto, è meglio non abbandonarla mai.
Il regista, Dante Ariola, alla sua prima esperienza cinematografica dopo una brillantissima carriera da pubblicitario, dice: “Forse il mio desiderio più grande sarebbe quello che il pubblico si domandasse: ‘Sto vivendo una vita autentica io, oppure ho diverse identità?’”. A malincuore non posso far altro che dissentire in toto. Che rispondere che, io come pubblico, non mi sono affatto immedesimata nei protagonisti primi del film, ma in tutte quelle coppie innamorate – e romantiche davvero – che a loro insaputa avrebbero trovato, di lì a poco, le loro case, i loro ricordi, e i loro letti, profanati da qualcuno che, chissà, si era amato di un amore loro, rovinando quel poco di sentimento che poteva commuovere davvero.
Cast artistico magnifico, molto ben preparato e fautore di una recitazione fantastica. Ma tutto il resto lascia a desiderare. Personalmente, mi ha solo innervosito. Ma chissà che il pubblico non la pensi diversamente. Speriamo.