Nonostante la kermesse veneziana si ponga ogni anno come spartiacque tra la calma estiva e la nuova stagione autunnale, il panorama cinematografico è ancora piuttosto scarno. E fragile. Purtroppo anche Il potere dei soldi, di Robert Luketic, che torna al cinema dopo il suo primo lungometraggio (La rivincita delle bionde, 2002), non è in grado di scuotere la tranquillità delle sale. Anche se, in fondo, largomento non è così noioso e il cast vende false speranze. Accontentando un po tutti, almeno sulla locandina, con la presenza di Harrison Ford, Gary Oldman e, per i giovani palati cinefili, Liam Hemsworth ed Embeth Davidtz.
Tutto ruota attorno a New York. La Grande Mela divisa in due metà complementari. Brooklyn e Manhattan. Ovvero la parte povera e quella ricca. Quella che guarda oltre al ponte, occhi rivolti alle luci così vicine – ma altrettanto lontane – del Financial District e quella che vive sulla cresta dellonda di un successo faticoso da raggiungere e che ora profuma di soldi.
Questo è, alla fine, il film di Luketic. Un plot inserito in un sistema binario chiaro e prevedibile. Perché purtroppo è così. La storia è decisamente priva di colpi di scena e resta scorrevole anche quando, verso la fine, gli eventi cercano di dare una sferzata di energia a un intreccio debole. Che vede ben più di un protagonista e una sovrapposizione (mai profonda nello sviluppo) di differenti piani concettuali. La voce sul cui focus si concentra la sceneggiatura è quella di Adam Cassidy (Liam Hemsworth). Un giovane ventisettenne bello e talentuoso, che ogni giorno si alza spinto dallambizione di non diventare come il padre – un ormai malandato americano di mezza età che si è accontentato di fare la guardia giurata per tutta la vita – e dalla necessità di dover mantenere il suo vecchio.
Poi cè il grande magnate Wyatt, a capo di un impero tecnologico. Ora veste in giacca e cravatta circondato da ciò che è bello e costoso. Un tempo, però, era come Adam. Senza un soldo e motivato dal desiderio di sfondare grazie alla sua mente geniale. Cè un ma. Si chiama nemico ed è il più acerrimo rivale di Wyatt. Amici, un tempo, ora divisi dalla competizione. Si intreccia, così, una partita spietata sulla carta per decretare il vincitore e Adam finisce con il diventare la pedina per la mossa finale.
La storia ci mette poco a scivolare nell’inconsistenza. Prova ad acquisire un briciolo di autorità usando temi potenzialmente interessanti, come lo scontro generazionale e il senso dell’ambizione che dà, ma toglie anche. La lotta per un futuro di soddisfazione e riconoscimenti. Di pacche sulle spalle e rispetto.
Quello che resta, invece, è solo un ritratto claudicante e un po’ retorico della fatica che fecero i nostri padri per sfondare e della brillante non curanza con cui si atteggia la generazione dei trentenni di oggi. Questo, però, è solo il punto finale. Perché nel mezzo c’è da parte di Adam la convinzione di volersi sentire sommerso di soldi e di tutto quello che questi comportano. Alla fine, invece, sembra abbia smesso gli abiti di un sogno che credeva fosse suo, mentre riparava le mancanze del padre, e abbia ritrovato la voglia – e la necessità – di vestire jeans e t-shirt. Rigorosamente di marca, però.