Non so se la redazione abbia fatto bene a far partecipare me alla proiezione del film Rush. Perché io sono di parte. Forse, mi sono detto, si aspettano una recensione a tutti gli effetti, fatta con i sacri crismi. Ma io non sono un esperto di cinema, ma un semplice appassionato di corse automobilistiche. Anzi, per meglio dire, di storia delle corse automobilistiche. E quindi, per me, vedere Rush – lultima fatica di Ron Howard che dopo avere smesso i panni di Ricky Cunningham in Happy Days ha intrapreso una fortunatissima carriera che lo ha reso uno dei registi più in vista di Hollywood – è stato come per un ladro trovarsi nel Museo Guggenheim con lantifurto disinserito, come Pinocchio quando arrivò nel paese dei balocchi, come un bambino che trova incustodito, aperto e su un tavolo alla sua altezza un vasetto di marmellata. Insomma, qualcosa di entusiasmante, inatteso, unico.
Perché il film di Howard che racconta la straordinaria rivalità sportiva fra i due assi del volante Niki Lauda e James Hunt culminata nel drammatico Campionato del Mondo di Formula 1 del 1976 è qualcosa di stupefacente. Mi sono innamorato di Rush dopo venti secondi e non sto scherzando. Le corse hanno sempre esercitato su di me una attrazione strana, inspiegabile dato che nessuno nella mia famiglia le seguiva. Spesso mi sono chiesto il perché e, col tempo, mi sono risposto con una domanda: cosa spingeva questi uomini a sfidare la morte se non una ricerca insopprimibile dei propri limiti e del significato di se stessi? Poteva essere semplicemente un mezzo di guadagno come un altro per questo insieme di protagonisti e comparse allo stesso modo sulla lama del rasoio? Ecco cosa mi affascinava ultimamente: uomini che si giocano tutto alla ricerca del tutto.
E il film inizia così: cito non testualmente e a memoria. Ventiquattro piloti partecipano al Campionato del Mondo di Formula 1 e ogni anno due di essi muoiono in pista (una stima per difetto, vi assicuro). Che razza di uomini posso accettare un lavoro così?. scoccata subito la scintilla. E non sono stato deluso. Da quel primo istante la storia, raccontata con una serrata cronaca, mi ha travolto e conquistato. I personaggi, prima di tutto: da un lato il meticoloso, determinato, professionista, grande gestore di se stesso Niki Lauda, la cui somiglianza con Daniel Bruhl è addirittura strabiliante; dallaltro il playboy, incosciente, talentuoso e irrequieto James Hunt, che ha ritrovato vita e volto in Chris Hemsworth.
Lintreccio della vita dei due campioni, raccontata così come avvenuta sul serio, è coinvolgente e bellissima, anche per i non addetti ai lavori che si troveranno davanti due uomini veri, controversi, sinceri fino allautolesionismo, fieri rivali e reciprocamente legati da una stima che si trasforma in amicizia. In cui si intravvede la continua ricerca di qualcosa che non li appaga mai. Godibilissimo anche lo spaccato del meraviglioso e adolescente mondo della Formula 1 degli anni 70 – di gran lunga lepoca più entusiasmante, variopinta, creativa e spettacolare di tutta la storia delle corse automobilistiche moderne – tratteggiato attraverso figure caratteristiche come Sir Alexander Hesketh, Clay Regazzoni – forse il personaggio meno somigliante fra tutti – Louis Stanley o Teddy Mayer. Ed Enzo Ferrari, naturalmente.
Impressionante, non ci sono altri aggettivi, la ricostruzione storica dei circuiti, delle gare, della tecnica e delle macchine, delle piste, del paddock. E per un appassionato come me è come entrare in una stupefacente attrazione di Disneyland. La produzione ha utilizzato per le scene in pista una ventina di vetture originali dell’epoca recuperate dalle più importanti collezioni private del mondo, oltre che diverse “repliche” sfruttate nelle ricostruzioni degli incidenti, limitando al minimo indispensabile l’uso della grafica al computer. Così si vedono immagini che non si sono mai viste, o meglio, come non le si erano mai viste: dall’incidente mortale di François Cévért a Watkins Glen nel 1973, di cui in realtà esistono solo pochi e sfuocati scatti e nessun filmato “vero”, al fatidico schianto di Lauda contro il terrapieno esterno della curva Bergwerk al Nurburgring, alla drammatica corsa finale sul circuito del Fuji ricostruita nei minimi particolari. Ma al centro ci sono senza dubbio loro, Lauda e Hunt le cui vite, anche dopo quello straordinario 1976, sono tutte un romanzo.
Il grande businessman Niki Lauda corse ancora per quasi un decennio, diventando altre due volte Campione del Mondo prima di fondare una compagnia aerea, divorziare dalla sua Marlene – a proposito, la parte della narrazione che racconta l’incontro fra i due è una delle più belle e divertenti del film – e sposare una hostess della sua compagnia, avere due gemelli a quasi 60 anni e tornare in pista nel 2012 diventando direttore del reparto corse Mercedes. Il romantico, bello e dannato Hunt, dopo quella strabiliante stagione ‘76, sembrò perdere il suo “tocco” e imboccò un repentino viale del tramonto. Il fuoco che gli ardeva dentro, non poteva che consumarlo in fretta. Corse solo altri due anni, ritirandosi a metà stagione 1979.
Divenne commentatore per la BBC, girava regolarmente in bicicletta o con un furgone piuttosto sgangherato. Quasi sempre scalzo. Rifiutò nel 1982 un’offerta di Bernie Ecclestone di 2 milioni e mezzo di dollari per guidare una Brabham perché “nella Formula 1 adesso gli uomini non contano più”, salvo poi tentare, nel 1990 a 43 anni di farsi ingaggiare dalla Williams quando si trovò senza un soldo. Morì a 45 anni per un attacco di cuore nella sua casa di Wimbledon, il mattino dopo aver chiesto a Helen Dyson, la donna che gli aveva dato finalmente la serenità che aveva sempre cercato, di sposarla. Ma mi rendo conto che sto divagando e quindi taglio corto: Rush è bellissimo, appassionante, senza respiro anche per chi non si interessa di automobilismo. E vi conquisterà.